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Archive for the ‘Filosofica Mente’ Category

“…per la contradizion che nol consente.

Oh me dolente! come mi riscossi

quando mi prese dicendomi:

«Forse tu non pensavi ch’io loico fossi!».

(Dante, Divina Commedia, Inferno, XXVII,120-123)

  • Oltrepassamento della contraddizione

Una contraddizione può essere risolta interpretando almeno uno dei termini dell’opposizione in cui essa consiste in modo da renderlo compatibile con l’altro.

Per far ciò, almeno un termine va allocato in un contesto diverso da quello in cui sta nell’opposizione. In tal modo a essere posta in un contesto diverso è la stessa contraddizione, i cui termini, nella ricontestualizzazione, vengono inclusi in un ambito più ampio al cui interno la contraddizione è oltrepassata. Nell’oltrepassamento che così si configura, nel contesto più ampio entrambi i termini si rideterminano nel loro significato, consentendo così il superamento della opposizione che dipendeva dal significato che essi esibivano.

L‘ampliamento dello sguardo e quindi del contesto consente in sostanza il rinvenimento di un medio tra i due termini opposti, medio che prima non appariva e che ora, comparendo nel contesto più ampio, consente di mantenere la relazione tra i due termini dapprima opposti, ma insieme consente di superare la loro incompatibilità risolvendo in tal modo la contraddizione oltrepassandola.

La contraddizione in quanto opposizione inconciliabile tra i due opposti viene in tal modo tolta . Oltre-passarla, superarla, sollevarvisi sono modi adeguati per indicare l’attraversamento in cui essa contraddizione consiste.

  • Ampliare lo sguardo: riconfigurare orizzonti

Il movimento di risoluzione della contraddizione non può dunque che essere un’estensione dello sguardo oltre i confini in cui era dapprima circoscritto, approdando ad un nuovo più ampio orizzonte in cui tutto quanto era dapprima considerato viene mantenuto riconfigurato..

Se si trattasse infatti – nella pura e semplice eliminazione di uno dei due termini opposti – di superare la contraddizione tenendo semplicemente fermo uno dei termini opposti rendendo semplicemente inconsistente e quindi inesistente l’altro, ciò comporterebbe che di questo altro dovrebbe scomparire ogni traccia, compresa ogni traccia passata. Ne dovrebbe dunque svanire anche ogni memoria.

La contraddizione non sarebbe però in questo modo risolta.

Si avrebbe infatti nulla più che un annichilimento di ciò che peraltro è posto. La apparente risoluzione della contraddizione risulterebbe semplicemente l’assurdo del porre inesistente ciò che invece è esistente. Nella misura in cui l’inesistente viene comunque pensato in quanto negato, la contraddizione sarebbe in realtà non risolta ma piuttosto, nichilisticamente, ribadita e accentuata

  • Contraddizione è dolore

Contraddizione non è peraltro soltanto una dimensione logica. Ha a che fare anche con termini che hanno consistenza ontologica. In molti casi consistenza incarnata, esistenza, vita. La contraddizione è quindi anche conflitto, ingorgo, sofferenza.

In essa consiste il dolore, nella misura in cui il dolore è apparire (posto che apparire è il voluto, ciò che comunque si vuole sia) del rifiutato. Nella contraddizione, in quanto dolore, ciò che appare è sia voluto che rifiutato.

  • Nella circostanzialità (di tutto l’essere) delle storie di vita

La contraddizione è quindi un vissuto. Sempre, poiché anche la pura logica è un vissuto. A maggior ragione quando essa brucia e incide in corpo e mente.

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Bene e male …non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni che noi ci formiamo in conseguenza del nostro confrontare le cose le une con le altre” (Spinoza, Ethica 4, prefazione)

In quanto una cosa s’accorda con la nostra natura, in tanto essa è necessariamente buona(Spinoza, Ethica, 4.31)

Un’opposizione

Le cose sul piano ontologico sono tutte semplicemente quel che sono, secondo la legge dell’identità/opposizione universale del positivo e del negativo, identità/opposizione di cui ogni ente – da essa determinato e costituito – è una specificazione.

L’opposizione universale positivo/negativo si individua cioè quindi in innumerevoli modi (ognuno dei quali identifica enti specifici disposti in opposizioni specifiche).

Tra i modi possibili dell’opposizione vi è anche l’opposizione di valore: l’opposizione bene/male. In questa opposizione disposti e identificati quali suoi poli, i significati bene e male sono in tal modo i segnaposti grazie ai quali il discorso sull’etica può incardinarsi.

Ma nulla più che incardinarsi.

Etichette

Il significato-bene e il significato-male – se ci si limita a una considerazione limitata a un punto di vista astrattamente logico – sono infatti solo e semplicemente due poli di un’opposizione che, per quanto distinta da ogni altra polarità oppositiva, pone gli opposti solo quali astrazioni formali, vuote di contenuto. Puri segnaposto appunto, in un’opposizione anch’essa quindi puramente formale, anch’essa vuota di contenuto concreto e specifico.

Finché si resta sul piano astrattamente logico, l’opposizione di valore etico non può perciò che porre i due termini opposti (il bene e il male) che quali pure e semplici etichette, disponibili di per sé a essere apposte potenzialmente a una qualsiasi cosa.

Corpo dell’etica: l’autocoscienza

Affinché “bene” e “male” assumano il concreto senso etico che loro conviene non è cioè sufficiente concepirli semplicemente quali poli di un’opposizione logica.

Finché la polarità oppositiva bene/male resta unopposizione soltanto logica è infatti semplicemente un’opposizione tra tante, la cui forma e le cui dinamiche non si distinguono sostanzialmente da una qualsiasi altra struttura oppositiva puramente logica.

Affinché i significati di bene e di male prendano lo spicco e il senso concreto che loro conviene in quanto significati etici ci vuole altro oltre il loro essere semplici etichette segnaposto.

Ci vuole anzi più di qualcos’altro. Ci vuole innanzitutto infatti l’ apparire di un’autocoscienza, di un ambito entro il quale i significati appaiano e siano saputi tali. Un’autocoscienza che poi non si limiti semplicemente ad accogliere l’apparire dei significati in gioco, ma che sia soprattutto un disporli (il bene e il male) in una valutazione. Laddove per la valutazione occorre che i segni bene e male siano posti in una relazione con altro da essi, valutazione nella quale i segni in cui bene e male consistono sono attribuiti ad altri ulteriori enti-segni (che stanno per cose, fatti, eventi…). Occorre cioè vi siano, inoltre, altri enti-segni coi quali i segnaposto bene e male vanno messi in relazione.

Nella relazione così istituita, da tale autocoscienza, tra singoli enti e i significati di bene e di male, dato un ente qualsiasi “x”, una volta posto in relazione a “bene” (o “male”), esso è così valutato eticamente e, conseguentemente, in quanto così investito di significato etico, è disponibile perciò ad essere perseguito o rifiutato.

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Nella sua “Conferenza sull’Etica” Wittgenstein ci propone esempi di proposizione etica.

Il primo esempio è: “Mi meraviglio per l’esistenza del mondo“.

Un secondo esempio è: “Sono assolutamente al sicuro, nulla può arrecarmi danno, qualsiasi cosa accada“.

***

Entrambe le espressioni sono da intendersi in senso assoluto e perciò etico, ossia da concepirsi senza alternativa eticamente possibile.

Se potrebbe cioè aver senso meravigliarsi – come in effetti anche accade – nel senso, perciò relativo, di stupirsi per qualcosa che è così invece che altrimenti; la meraviglia che ha invece a che fare con l’etica non può che scaturire a fronte del non darsi di un’alternativa equipossibile. La meraviglia è in questo caso, come dire, meraviglia assoluta: un meravigliarsi per il ritrovarsi in uno spazio logico che è in fondo quello del sempre vero, cioè del tautologico.

Una meraviglia quale stupore di accorgersi di essere là dove si è, aperti certo a un mondo ove tutto è contingente ma radicati peraltro in una dimensione che sta, oltre ogni alternativa e altra possibilità.

***

Oltre la contingenza è poi pure l’altra esperienza etica esemplare che Wittgenstein ci indica: quella di sentirsi al sicuro qualsiasi cosa stia capitando.

Anche questa proposizione è da intendersi in senso assoluto e non cioè nel senso che si sia al sicuro nel mentre si potrebbe non esserlo: questo riguarderebbe la contingenza del mondo, sarebbe usare la proposizione in senso relativo.

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(…)

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(…)

Questo ci tocca

Una volta allocato, l’ospite (la malattia, il male di vivere) attrae così l’attenzione su sé nella persistenza dei segni che invia. Nella malattia del corpo ponendomi all’erta inchiodato in essa e in circospezione su sue ulteriori presenze. Nel male di vivere immergendomi nella sua densità.

Tutto questo ha a che fare col senso.

Non solo per l’urgenza e la difficoltà di trovare in questa intrusione che emerge nel suo essere me, nel suo essere già da sempre me, un senso. Ma anche per il concentrarsi dei sensi tutti nella nuova presenza, che richiama a sé innanzitutto dove si duole.

Nella malattia – che sia lesione del corpo o male dell’anima – questo “ci tocca”.

Specchio dell’anima

Il corpo si espone in superfici, pelle a fior di pelle che partisce – in interfaccia o in distanze – gli spazi con gli altri corpi.

Nel corpo l‘anima (qualunque cosa essa sia, anche fosse solo “parola per dire qualcosa del corpo”) così si espone, apparendo, nel mondo e alle altre anime.

Qui stanno le rivelazioni, al di qua di impenetrabili interiorità o inesperibili ulteriorità.

In questo senso il corpo tutto è quindi un volto: il volto dell’anima. Voltato (in primis nel viso) innanzitutto verso l’esterno, il corpo è però voltato anche verso dentro. Qui attinge il dolore o il piacere, in vibrazioni e con-tatti. Qui, nel riverbero dell’incontro con altro, si svelano i cuori, nella protensione o intensione dell’emozione.

L’emozione perciò, nella sua protensione, traspare inevitabilmente nel volto rivolto all’esterno, ove l’ospite (la malattia, il male di vivere) non può non trapelare.

Perciò, se si sta male, è difficile non farlo vedere.

Nel volto è lo specchio dell’anima.

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images (2)Il compimento possibile

Nell’attesa sospesa in cui l’invocazione consiste, nella disponibilità all‘accoglimento del cenno dell’altro, desiderare non è solo pathos. Ma è anche attività. Già solo nel decifrare le tracce mandate dall’altro.

In questa attività, in questa dinamica, il compimento del desiderio è possibile. L’acme della meta raggiunta può essere toccata.

Se infatti l‘azione, volta in risposta al cenno dell’altro, trova risposta a sua volta da parte dell’altro cenni ulteriori provenienti dall’altro potranno ottenere decifrazione quali segni del desiderio che anima anche l’altro. Se poi l’altro (il desiderato) riconosce il desiderio che lo investe come desiderio e – quale sguardo a sua volta reciprocamente desiderante – così lo accoglie e ricambia, il desiderio può veder riconosciuto sé, raggiungendo in questo riconoscimento un compimento.

Il desiderare può così ottenere dall’altro il riconoscimento di sè e, per contraccolpo, la valorizzazione dell’essere a sua volta desiderato. In questa valorizzazione il desiderio vede riconosciuta e sancita così la sua natura, saturando e quindi ottenendo ciò che esso è (cioè il suo essere desiderio).

Per riconoscersi desideranti, ci si affida così (nel senso che ci si mette nelle mani altrui e nel senso che ci si fida) al riconoscimento altrui. Non potendo guardare lo sguardo che si è, l’unico esaudimento possibile del riconoscimento è, volgendosi all’altro, trovare uno sguardo ri-conoscente, rimandante l’esser sé della relazione in cui il desiderio consiste.

Nella possibilità che qui si apre, può essere anche che l’altro – avvolto a sua volta in una dinamica analoga – si esponga come a sua volta dischiudentesi anch’esso desiderante, a sua volta affidantesi.

Desiderante il me desiderante, può offrirsi all‘ottenimento cui il mio desiderio aspira.

Apertura della libertà

Esaudimento del desiderio sta quindi innanzitutto nella possibilità che l’altro rivolga a sua volta a me il suo desiderio, nel riconoscere il mio desiderio all’altro rivolto. In ciò è un compimento: mettere in pari i rispettivi desideri per quello che sono.

Per far ciò serve agire, alimentare relazione e avviare vicenda in specifica forma.

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L’assenza e la traccia. L’altrove presenza

Laddove vi è desiderio c’è – incisa in chi desidera – mancanza.

Vi ‘è inoltre assenza: quella dell’oggetto dal desiderio investito.

Ma se c’è assenza, dell’assente – l’oggetto del desiderio investito dall’intenzione in cui il desiderio consiste – deve esservi cenno, deve esservi traccia. Incisa in chi desidera è quindi una traccia che sancisce una mancanza, la mancanza che segna il soggetto del desiderio.

Senza di essi – il cenno, la traccia – non vi sarebbe nemmeno l’assenza. Ma la traccia accenna insieme anche a una presenza: la presenza dell’altro

Nella dinamica del desiderio non c’è dunque solo mancanza. Nella dinamica del desiderio deve essere inscritto anche qualcosa che c’è.

Deve essere infatti in gioco anche l’energia senza cui il desiderio si spegne. Ma non solo: l’energia, se c’è desiderio, deve essere inoltre alimentata orientata da qualcosa di altro ancora che a sua volta c’è: la traccia. La traccia che è rinvio, a sua volta, a qualcosa di altro ulteriore ancora, che anch’esso pure c’è: altra altrove presenza, che fa cenno di sé da altro luogo, altro da me.

Nelle mani dell’altro

Finché si desidera anche l’appagamento è assente. E’ altrove, non è qui ora. E’ sempre più in là: da venire.

Ma l’appagamento anelato – costitutivamente assente nel desiderio finché è desiderio – è agognato solo in quanto è in vista. Solo in quanto intravisto quale qualcosa che è stato, potrebbe essere, potrà essere presente si può fare desiderare.

Se è vero che l’oggetto del desiderio non può non essere pensato che altrove, tuttavia deve essere tale che da lì, là dove è in qualche modo esistente, ci dà sua notizia e ci lancia il suo cenno.

Perciò il desiderato non è solo un mio fantasma. Non è riducibile a allucinazione di un mio delirio. Non è mai solo mia rappresentazione.

E’ perciò che in qualche modo si fa desiderare di suo. Ha entità e una forza attrattiva sua propria.

E’ perciò che nel desiderio c’è arrischio, e non poco: la traccia dell’altro mi mette anche sempre nelle mani dell’altro, nelle mani di un altro.

L’inesaudibile

Nella misura in cui l’oggetto del desiderio è dunque di suo quella tal forma che di suo ci fa cenno e in quanto è quindi e resta sempre un autonomo altro, può perciò anche sempre sottrarsi.

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In un nastro di Moebius…l’insetto che percorre la superficie… può credere in ogni momento che sia una faccia che non ha ancora esplorato, quella che è il rovescio della faccia che sta percorrendo. L’insetto può credere a questo rovescio, benché di fatto non ci sia… Senza saperlo, esso esplora l’unica faccia che c’è, eppure, in ogni momento, c’è anche un rovescio

(Jacques Lacan, Seminari 1962-63, p.148)

… In un nastro di Moebius…”

L’insetto – di cui Lacan descrive lo spostamento lungo il tragitto sulla superficie di un nastro di Moebius – evidentemente ci rappresenta. Rappresenta il nostro consapevole avanzare lungo il tragitto del tempo del nostro vivere, a occhi aperti, vigili, rivolti a ciò verso cui andiamo.

Il nastro ha però un rovescio.

Sotto e dall’altro lato del nastro su cui scorre il mio tragitto, si dà infatti dell’altro, si dà un nascosto in parallelo. Ma questo nascosto in realtà mi attende, sarà prima o poi anch’esso svelato attraversato nel mio scorrere nell’”unica faccia che c’è” in realtà del nastro.

Imprendibile e onnipresente sempre c’è cioè un rovescio. Nascosto e quindi inconscio, ma anche insieme attualmente presente, sia pure nel lato nascosto. Attualmente presente quindi come inconscio. Ma anche sempre in attesa di essere a sua volta attraversato, più avanti, per cui l’avanzare verso il rovescio, che in qualche modo perciò è sempre prima o poi raggiunto, è peraltro anche uno spostare il rovescio sempre un po’ più avanti, tenendolo comunque sempre nascosto sotto. Si rincorre così sempre il rovescio, come rincorrere la propria ombra.

In quanto è impossibile stare insieme sopra e sotto la superficie su cui si scorre, mai la superficie sarà rovescio. Ma – d’altro lato e insieme – nessun punto della superficie del nastro sarà tuttavia per sempre rovescio. Prima o poi – questo è il nastro di Moebius – ogni punto del rovescio sarà superficie su cui si passa.

Se da un certo punto di vista il rovescio è quindi l’ora inaccessibile, dall’altro sarà sempre raggiunto e oltrepassato (e, in linea teorica, tutto ciò pure più volte).

Fuor di metafora, l’altro lato del nastro è l’alterità inaccessibile su cui, sopra e accanto a cui pure scorriamo. Ma che non vediamo. Essa è un’assenza.

Assenza che tuttavia diventerà presenza, pur sempre insieme ad altra diversa ulteriore assenza.

Grovigli

Tutto ciò è di certo un (bel) groviglio.

Uno dei tanti, peraltro, che Lacan ci espone. Insinuandoci spesso persino il dubbio che a seguirli, questi grovigli, non si stia che girando a vuoto, o in tondo, come in fondo si farebbe percorrendo la superficie di un nastro di Moebius.

Lacan dunque: Lacan l’eretico fedele a Freud, Lacan l’istrione, Lacan la voce che attira le folle ai seminari, Lacan l’enigma, Lacan l’oscuro ostico illeggibile, Lacan che non chiede imitatori, Lacan che squaderna le facce del desiderio su cui invita a non transigere nel mentre tace il suo.

I miei Scritti non li ho scritti perché venissero capiti, li ho scritti perché vengano letti. Che non è per niente la stessa cosa”. Così scrive Lacan e non è una boutade, una presa in giro, uno dei suoi non infrequenti motti di spirito. Anzi, l’indicazione è preziosa, va presa sul serio. Può significare che leggere i suoi scritti non è solo decodificare significati, ma è un incontro, è immergersi in un’esperienza, un’esperienza del simbolico, di linguaggio.

Leggere Lacan non lascia perciò indifferente, così come non lascia indifferente nessun incontro significativo. Leggere Lacan non lascia uguali a così come si era prima.

Incontrare la sua scrittura è l’incontro con un discorso tortuoso, perché è discorso che intende accostarsi all’inconscio seguendone la figura tortuosa. E’ linguaggio in ascolto della verità in cui l’inconscio consiste, cercando di corrispondere all’irrappresentabile che pur l’inconscio è. Discorso dotto, alchemico, algebrico. Forse a volte ironico. Magma discorsivo in cui emergono enigmistica, rebus, giochi di parole. Discorso su specchi, e bambini giubilanti nello scoprirsi riflessi in essi, discorso su macchine e schemi ottici, su evanescenze. Discorso su matemi aggrovigliati, flussi joyciani di parole alla Finnegans Wake, topologie matematiche, quadri surrealisti. E ovviamente discorso su casi clinici, e testi freudiani. E dunque su sogni, lapsus, atti mancati, motti di spirito. Ma pure su metonimie e metafore. Discorso alludente alla linguistica, allo strutturalismo, alla filosofia (Heidegger, Foucault, Sartre e Merleau Ponty, Kant a braccetto con Sade, Platone e il suo Simposio a pluristrati). Infine discorso su nodi: letteralmente nodi. Nodi araldici o da marinaio, materialmente da aggrovigliare e sciogliere. Discorso su significati. Ma altrettanto su significanti. In un’apparente baraonda che allude a ambivalenze, nel dubbio a volte di essere presi presi in un gioco surrealista.

Ma a lasciar sedimentare tutto ciò una volta letto (e magari, come Lacan stesso sa e ci dice, persino non capito) più di un senso, in più di un senso, si impone e balena.

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Ricordo bene: lo avevo capito…

I concetti si erano finalmente inanellati in fluida cogenza.

Il ragionamento si era dipanato esatto, sviluppandosi in tutti i suoi precisi minuziosi passaggi.

In nitida evidenza, passo passo, snodo dopo snodo, i grovigli aporetici, uno ad uno, li avevo sciolti, in perfetta sequenza. L’enigma, ora decifrato, aveva lasciato approdo alla conclusione. Il vero, finalmente illuminato, era lì: evidente. Un unico nesso includente premesse e conclusione, nell’articolata necessaria struttura del pensiero si era saldato e disposto.

Avevo finalmente capito (il teorema, la situazione, il senso di un gesto o una frase, l’essenza profonda di una persona…: una verità, insomma)

Dimenticanze

Lo avevo capito…

Ma ora – qui ora – ricordo solo null’altro che questo: che lo avevo capito.

Se cerco cioè ora su due piedi di rammemorare come ero arrivato a capirlo, magari perché tu me ne chiedi resoconto e ragione, se cerco ossia di ricordare in che modo vi ero arrivato e quindi cosa avevo esattamente capito, questo, qui ora, almeno per ora, me lo sono scordato.

Succede… Quando accade, capita dunque che al più mi ricordi la conclusione cui ero approdato, la tesi colta quale punto d’arrivo. Ma anche questo, persino questo, a volte, così su due piedi, mi sfugge.

Capita allora di essere certo che ne ero sì certo, ma non ricordo esattamente certo di cosa. Men che meno allora ricordo il decorso di tutti i passaggi del ragionamento nella precisa forma che avevo compreso: non ricordo i perché della conclusione di cui – lo ricordo – avevo raggiunta certezza.

Ne avevo – ricordo bene – avuta evidenza in idea chiara e distinta. Tenevo in pugno una verità. Che però ora, scordata, non tengo più.

Ci devo perciò di nuovo pensare. Quanto ora mi sfugge lo devo di nuovo riprendere…

La tela che avevo tessuto si disfa… La devo ritessere ogni volta di nuovo….La tela si tesse, si disfa, ritesse, ridisfa

Volti… gesti… voci…

Cerco di ricordarmi quel volto… quel gesto.

Ma il ricordo è sbiadito.

Particolari mi sfuggono e, più ci penso – senza quei dettagli che ora non ricordo ma che erano quelli che gli davano la sua identità inconfondibile – quel sorriso, quel certo sguardo, non riesco più a prenderli nell’immagine del loro ricordo.

Quelle certe fattezze che cerco di far tornare alla mente – fattezze che avevano l’insostituibile pregnanza di senso cui tu rimandavi – me ne accorgo, nella loro precisa configurazione sono ora svanite dalla mia mente o al più solo vagamente accennate nel mio ricordo di esse….

Cerco di far risuonare dentro di me quella voce. Unica. Differente da tutte le altre. Ma non ci riesco.

Non ne ricordo più il timbro esatto. Non riesco a risentirlo dentro di me. Né riesco a farne risuonare dentro di me la cadenza precisa, né le inflessioni che la contraddistinguevano. Inconfondibile, il suono in cui consisteva era corpo di chi mi parlava (e interessava).

Com’era quell’odore così inconfondibile? Che atmosfera esattamente c’era in quel calore o frigore dell’aria? E quella luce com’era nel suo irripetibile cristallo? Com’erano esattamente quel toccarsi, abbracciarsi, salutarsi?

Non riesco a richiamarli alla mente così come erano. Anch’essi scordati….. (altro…)

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(…)

Conoscere sé per mezzo dell’altro

Amavo Socrate nella convinzione che toccasse a me – se mi concedevo a Socrate – di ascoltare proprio tutto quello che costui sapeva”

(“Simposio”, discorso di Alcibiade)

Nella vicenda amorosa, alimentata dal desiderio e sostenuta da indizi di una promessa possibile, l’amante vuole dunque avere accesso alla trasparenza di tutto l’amato. E questo accesso lo vuole (r)assicurato, ancorato a un “per sempre”.

A tal fine l’amante interpella, parla, chiede, progetta, escogita, pensa. Si arrovella perciò nel tentativo di indirizzare il discorso, lo propone, cerca così di intessere dialogo e di alimentare in tal modo una storia. Ma, nonostante tutte le intenzioni e accortezze, il discorso d’amore può essere governato e dominato solo in piccola parte.

L’amante vorrebbe infatti svelare l’amato in trasparenza assoluta, catturarne il segreto, ma l’amato – finché è desiderato – sfugge alla presa. Si desidera infatti solo quanto non si possiede e l’amato desiderato resta – finché il desiderio lo agogna – in quanto tale non colto nel suo prezioso segreto. Questo segreto alimenta la vicenda d’amore, per cui le parole (e quindi i significati delle singole azioni) nella trama del discorso e della storia d’amore non possono avere mai chiaro e univoco senso, ma possono solo alludere a quanto significano. In gran parte dunque anche sviano e nascondono.

Perciò nella vicenda e nel discorso d’amore nessuno governa la cosa, men che meno l’amante. Quanto accade è quindi sempre anche altro da quanto è ordito. Le parole e le azioni innescano cioè sempre anche altro da quanto, peraltro confusamente, è auspicato. Di questo altro il discorso e la vicenda amorosa sono la cifra, che non scioglie l’enigma.

L’amante è cioè dominato da una potenza, che lo attrae e che egli attribuisce all’amato. Perciò vuole conoscere dell’amato tutto: perché vuole sapere della figura e del segreto di questa potenza – in quel tutto intravista – che così tanto lo attrae. Ma, nel perseguire questo intento, non ha in realtà mai esperienza di tale potenza, che ritiene essere altra da sé. Quel che davvero l’amante esperisce, quel che gli accade davvero è invece inevitabilmente esperire (e quindi in qualche modo conoscere) innanzitutto una parte di sé: quella parte che, essa potenza, a contatto con la supposta potenza dell’altro, si accende e si espande.

L’interesse, colmo di desiderio, è guidato quindi, in tal modo, sì dalla ricerca dell’identità dell’amato. Ma questa ricerca è piuttosto occasione e pretesto per percorrere in realtà altra via, nella quale la vera posta in gioco del desiderio attivato si mostra. L’unica via percorribile, l’unica che dunque per davvero sia in gioco, è infatti quella che porta a conoscere quella specifica parte di sé che è attratta e potenziata dalla specifica forma di potenza nell’amato intravista.

Nel conoscere e accedere a tale potenza il rapporto d’amore si svela essere in realtà mezzo per conoscere . (altro…)

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Dicono

che il primo amore sia il più importante.

Ciò è molto romantico

ma non è il mio caso.

Qualcosa tra noi c’è stato e non c’è stato,

è accaduto e si è perduto.

Non mi tremano le mani

quando mi imbatto in piccoli ricordi

e in un rotolo di lettere legate con lo spago

nemmeno con un nastrino.

Il nostro unico incontro dopo anni,

la conversazione di due sedie

intorno a un freddo tavolino.

Altri amori

ancora respirano profondamente in me.

A questo manca il fiato per sospirare.

Eppure proprio così com’è,

è capace di ciò di cui quelli

non sono ancora capaci:

non ricordato,

neppure sognato,

mi familiarizza con la morte.

(Wislawa Szymborska)

***

L’affettività in cui, anche, consistiamo alimenta ogni nostra ricerca, ogni nostra relazione, ogni nostra dinamica. Le sue forme e sfumature sono molteplici. Ma tutte sono calibrate intorno a una figura che in qualche modo le alimenta tutte, dando quella misura il cui plesso semantico i Greci hanno nominato Philìa, o Eros.

Anche la filo-sofia, in quanto philìa, trova misura nella tensione in cui questa forma affettiva consiste e perciò filosofia è sempre in qualche modo pratica e discorso amoroso. Talvolta può essere esplicitamente anche discorso su amore. Platone su questo ci è antico maestro, ma anche altri e altri – non solo Platone – si sono arrischiati nel dire su Amore. Sentieri sono stati così da discorsi percorsi, un mappa del dire d’amore è stata in tal modo tracciata.

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Sul tema molto da dire hanno però anche i poeti. Wislawa Szymborska ad esempio,  nei versi cui sopra, nel suo rammentarci il legame tra l’amore e la perdita (dunque tra l’amore e la morte). Ma anche altri e altri meritano attenzione ed ascolto, e non solo poeti: tutti coloro che hanno disposto in parola quanto è traccia del desiderio che alimenta la vita ed è richiamo ad aprire l’orizzonte cui Amore ci avvia.

Frammenti

Pensando mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi mi sono moltiplicato.

(Fernando Pessoa)

Il discorso su amore non può perciò, anche date le più disparate fonti da cui è stato alimentato e intessuto, che dispiegarsi polivoco, articolarsi in frammenti (in un gioco che consente il rifrangersi di echi ed abissi).

Corrispondendo alla natura di Amore, in cui il senso lampeggia intenso e profondo ma a sprazzi e spezzato e non certo articolato in un discorso disteso secondo pura ragione, già Platone di questo è del tutto avveduto: nel Simposio perciò quando Diotima tratteggia la figura di Eros lo presenta a pennellate incisive e secondo diversi lati prospettici ognuno perfettamente calzante, ma anche ciascuno a sé stante nonché per sé insufficiente a esaurirne figura.

(altro…)

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