[…] nel mondo vi è sempre di nuovo un esodo,
che conduce fuori dallo status di volta in volta,
e una speranza che si lega con la rivolta,
che è fondata sulle possibilità concretamente
date di un nuovo essere
E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo
Dopo Tito, Massimo. Due amici che se ne sono andati a breve distanza l’uno dall’altro; due visioni della filosofia e della ricerca teorico-sociale ben diverse, ma in qualche modo entrambe aperte alla trascendenza, all’esodo, alla speranza. Due gravi perdite per la cultura italiana, nomi legati a virtù etiche di altri tempi: se la vita di Tito Perlini è stata inquieta esplorazione filosofica della possibilità di andare oltre l’esistente e l’immediato – attraverso filosofia, arte, poesia, scienze umane – “fino a giungere al termine del disincanto”, come ha scritto Magris, quella ben più breve di Massimo Rosati stava compiendo invece il tragitto opposto ma complementare, dal disincanto, esito di un mondo non poi così secolarizzato e razionalizzato, ma sempre più attraversato da spinte al re-incanto, pluralmente disponibile al mito, alla narrazione, al racconto in cui si riaprono le sue radici religiose. Grazie a studi di alto valore anche internazionale soprattutto di sociologia delle religioni, Massimo aveva introdotto in Italia autori centrali nello studio della “religione civile” come Ronald Beiner e Robert Bellah passando per Michael Walzer, e tornando in Europa con la rilettura personale di Émile Durkheim, finalmente liberato dallo stereotipo positivistico e funzionalistico e restituito alla sua dimensione di pensatore etico, antropologo, finanche di “critico sociale” in senso walzeriano.
Pensando ai tanti progetti condivisi insieme, dal Seminario di Urbino, a Ragionevoli dubbi ai Quaderni di Teoria Sociale, la scomparsa di Massimo ci lascia sgomenti e sconfortati (pensiamo anche al dolore della moglie Barbara e della giovane figlia Anna). Enfant prodige della sociologia italiana con una monografia su Habermas (la sua tesi di laurea), quando l’ho conosciuto, nel 1994 al seminario di teoria critica di Gallarate, Massimo era già autore di una delle allora più documentate monografie (credo la prima in Italia) sul pensiero di Habermas, dal titolo Consenso e razionalità, pubblicata da Armando l’anno successivo alla dissertazione. Max (così lo chiamavamo noi del Seminario di Urbino, spazio di discussione critica che avevamo creato insieme a lui) aveva un bel blog sulle pagine di “Reset”, dal titolo significativo Living together, differently, espressione della sua infaticabile battaglia per il pluralismo culturale e religioso, della sua concezione etica e sociale, tutt’altro che prona alle idee postmoderne, ancor oggi pervicaci e inestirpabili, della “morte del sociale” o della “fine delle società”. Un pluralismo consapevole, critico, aperto alle differenze, argomentato e giustificato attraverso l’analisi del nesso durkheimiano fra solidarietà e sacro, fra sfera pubblica e religione, in anticipo su molte idee recenti avanzate dallo stesso Habermas e da vari neodurkheimiani. Non a caso Massimo aveva fondato, presso l’Università Tor Vergata di Roma, dove insegnava Sociologia Generale, il “Centro studi e documentazione ‘Religioni e istituzioni politiche nella società post-secolare’”. Centrale era per questo il legame costitutivo tra relazioni private e relazioni pubbliche per la vita stessa delle istituzioni politiche – oggetto di quelle indagini neotocquevilliane proposte in Abitudini del cuore di Robert Bellah, libro che Max amava molto in quanto capace di tenere insieme il pluralismo senza il relativismo e l’universalismo senza la perdita delle singolarità e che aveva tradotto per Armando sin dal 1996.
Dopo (ma anche grazie a) gli studi su Solidarietà e sacro. Secolarizzazione e persistenza della religione nel discorso sociologico della modernità e Il patriottismo italiano, editi entrambi da Laterza, Massimo si è dedicato soprattutto al tema della memoria pubblica e collettiva, spesso in continuità con le tesi di Maurice Halbwachs. Il suo ultimo intervento riguarda infatti proprio la memoria e le sue osservazioni meritano di essere rilette anche qui su Prismi. Lo ricordiamo così, pronto all’intervento pubblico, generoso ermeneuticamente, appassionato, incisivo e un po’ parresiasta del fenomeno religioso pubblico. Ecco perché non le mandava a dire nemmeno al direttore di Micromega quando gli rimproverava in questo post sul suo blog la tesi (sostenuta da Flores d’Arcais in un pamphlet dal titolo “odifreddiano” La democrazia ha bisogno di Dio. Falso!) per cui le democrazie non avrebbero bisogno delle religioni. La religione civile vive di racconti, visioni, narrazioni, cioè di tutta una sfera simbolica che, anche nella società post-secolare in cui viviamo, è veicolata soprattutto dalla religioni (come ci spiega qui anche Jeffrey Alexander, un neodurkheimiano molto amato da Massimo,).
Max, che l’Esodo ti sia lieve. Noi restiamo qui, a ricordarci sempre la finitezza delle nostre dialettiche.
Memoria
Nel Novecento la memoria è stata psicologizzata: Bergson, Freud, Proust, l’hanno ricondotta per così dire nelle profondità dei nostri flussi di coscienza. Oggi essa viene spesso naturalizzata, ad esempio dalle neuroscienze. La sociologia ha offerto il suo contributo – sarebbe meglio dire i suoi contributi – all’analisi della memoria, e vorrei richiamare alcuni tratti essenziali di un paio di essi, interni alla tradizione di pensiero inaugurata da Émile Durkheim, in quanto utili a fare luce sul paradosso da cui siamo partiti.
Il primo è, quanto meno per i sociologi che si occupano di memoria (giacché già tra gli storici mi sembra avere non molto corso), un riferimento classico: Maurice Halbwachs. All’interno della ricca riflessione di Halbwachs sul tema, due elementi vanno sottolineati: l’enfasi sui ‘quadri sociali’ della memoria, e il carattere pluralista di quest’ultima. La tesi principale di Halbwachs, riassunta con una certa semplificazione, è che la memoria individuale non corrisponda alla capacità del soggetto di immergersi in un viaggio introspettivo all’interno della sua coscienza e del suo passato, quanto piuttosto alla pratica se si vuole ‘esteriorizzante’ di ricostruzione – a partire dal presente – di un passato che ci lega a specifici gruppi sociali. Ricordiamo nella misura in cui siamo parte di gruppi, con essi intratteniamo relazioni, ‘facciamo’ cose: se ho memorie di famiglia è perché esiste un gruppo sociale che chiamo famiglia di cui sono parte e al cui interno per via spesso ritualizzata si riattivano ricordi del passato, che altro non sono in realtà che ricostruzioni a partire dai bisogni, interessi, relazioni etc. che caratterizzano quel gruppo nel presente. Da questo punto di vista, dimenticare significa perdere contatto, empirico o simbolico, con specifici gruppi sociali entro cui si costruiscono le memorie; l’oblio è un sintomo e una spia di legami sociali che si sfilacciano, sfaldano; è un sintomo di carenza di integrazione sociale. Ma l’individuo moderno, sottolineava con forza il durkheimiano Halbwachs, appartiene a molti gruppi sociali, e dunque così come ha memorie di famiglia ha memorie di classe, memorie legate a gruppi professionali, a comunità di stili di vita etc. Le memorie anche individuali, dunque, sono plurali, e anzi le nostre identità sono come il punto d’incrocio di tante memorie. A questo carattere pluralista della memoria, legato alla molteplicità dei gruppi sociali cui apparteniamo, si accompagna quello potenzialmente conflittuale della memoria: le nostre identità, individuali e collettive, possono essere anche il campo di battaglia di memorie contese. Sarebbe un errore pensare che la memoria unifichi sempre e comunque: sappiamo bene che nel suo nome si fanno guerre, proprio perché la memoria è necessaria per garantire la continuità identitaria dei gruppi e la loro integrazione.
Il secondo contributo è quello di un antropologo sociale contemporaneo, Paul Connerton, il quale ha recentemente sostenuto che l’ipermnesia moderna e contemporanea si accompagna alla formazione di una società fondamentalmente postmnemonica per ragioni non contingenti, bensì strutturali: “l’amnesia culturale non è un prodotto causale della modernità: è un suo prodotto intrinseco e necessario, o per lo meno un prodotto della sua componente rappresentata dall’espansione economica del processo di produzione capitalista. L’oblio è parte del processo di produzione capitalista stesso” (Come la modernità dimentica, p. 151). La produzione di velocità e la distruzione ripetuta e deliberata dell’ambiente edificato, l’aumento della scala di insediamento umano, i tempi di produzione delle merci sono tra i fattori strutturali del processo di produzione capitalista che generano amnesia. Per non parlare, ovviamente, della ‘flessibilizzazione’ dei percorsi lavorativi, che impedisce qualsiasi costruzione di identità narrative.
Tanto Halbwachs quanto Connerton, le cui prospettive sono unite da un’aria di famiglia, sottolineano con particolare enfasi la materialità e la natura performativa della memoria: si danno memorie u-topiche, senza luogo, certamente; ma in generale la memoria ha molto a che fare con lo spazio e con i corpi. Ricordiamo attraverso pratiche incarnate, attraverso gesti e ‘cose che facciamo’, spesso in forma ritualizzata, entro spazi specifici. Ecco perché l’amnesia è legata alla distruzione dello spazio, e al venire meno di luoghi e contesti in cui gli individui ‘fanno’ cose insieme e alimentano quelle ‘catene di memorie’ entro i gruppi sociali – le comunità religiose sono state definite ‘catene di memorie’ da Danièle Hervieu-Léger –, proprio mentre si moltiplicano gruppi e cerchie di cui apparentemente facciamo parte. A gruppi sempre più numerosi e sempre più strumentali corrispondono memorie multiple ma labili, mentre allo sfaldarsi di quelli che sono stati chiamati ‘gruppi costitutivi’ – cui siamo legati non per interessi ma via forme anche pre-contrattuali di consenso – corrisponde il nostro sprofondare nell’oblio.
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