“Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse:-Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai riviverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà far ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta- e tu con essa granello di polvere!…-”
Così ci interpella Nietzsche, nel celeberrimo aforisma 341 della “Gaia Scienza”, intitolato “Il peso più grande”, in cui accenna, per la prima volta credo, alla sua stupefacente teoria dell’eterno ritorno dell’identico, l’accettazione o meno della quale è per Nietzsche persino discrimine fondamentale tra noi piccoli uomini, che ne saremmo inorriditi e spaventati, e l’Uber-mensch che la accoglie entusiasta e gioioso.
Sulla teoria dell’eterno ritorno moltissime cose sono state scritte e molto potrebbe essere detto, sotto molti punti di vista e lati. Però io vorrei qui semplicemente prendere sul serio la domanda di Nietzsche: che accadrebbe se il demone ci dicesse quanto nell’aforisma sta scritto? Ossia: come davvero gli risponderemmo? Cosa davvero sentiremmo? Come ci porremmo se davvero questa teoria ci imponesse la sua verità e a questa teoria davvero credessimo?
Se ciò avvenisse, non so se in prima battuta davvero ci rovesceremmo “a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato“, nè forse risponderemmo: “tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!“; come Nietzsche enfaticamente ipotizza potrebbero fare rispettivamente il piccolo uomo e il superuomo. Però certamente credere a quanto il demone ci sussurra non sarebbe per noi indifferente, cioè sarebbe forse vero che alla fin fine “Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi…“, come Nietzsche scrive nell’aforisma poco più avanti. Ma poi potremmo pure pensare, in questa metamorfosi, che in fondo non ci è andata poi così male e che se si tratta di ripetere tutta la nostra vita così come è stata, in fondo può andar bene, perchè magari ci poteva anche andar peggio.
Non si può escludere che non ci si possa porre di fronte al demone anche in questo modo, forse un po’ prosaico e banale.
Ma ancora più interessante sarebbe se il demone ci lasciasse qualche possibilità di scelta in più e non ci ponesse soltanto un aut aut così netto e secco tra accettazione dell’eterno ritorno o assoluta irreversibilità del tempo con conseguente immutabilità del passato. Magari si potrebbe perciò persino tentare di persuaderlo a rivelarci una ulteriore alternativa e sussurrargli noi a nostra volta la proposta che forse chiunque, potendo, gli farebbe e che consisterebbe nel fargli sussurrare pure la possibilità della situazione che, forse chiunque, potendo, vorrebbe reale. Potrebbe accadere che allora al demone dicessimo: “Preferirei del mio passato eternamente rivivere quanto c’è stato di bello, e ritornare anche a tutti i bivi della vita in cui mi sono ritrovato e poter scegliere ora, col senno di poi, quando seguire di nuovo la strada già una volta battuta e quando ora invece andare a vedere dove porta quella che a suo tempo esclusi. E poter cancellare quanto è stato dolore, od errore”.
Gli proporremmo così di poter scegliere di ripetere certo la nostra vita, ma emendata e corretta. Sarebbe come poter riavere vent’anni (che poi non è detto, a ben pensarci, siano stati davvero più felici di ora), ma soprattutto sarebbe riavere le possibilità dei vent’anni.
Vorremmo un’altra vita quindi rispetto a quella che abbiamo avuto. Ma una vita che mantenesse tutto ciò che ci appare buono della storia che abbiamo effettivamente vissuto, e recuperasse e magari ripetesse quanto di bello c’è nel nostro passato. Che fosse perciò pur sempre la nostra, ma in più anche mondata degli errori e i dolori, cacciati nel nulla e l’oblio. Che perciò valesse la pena di essere ripetuta ed amata, e proseguita dopo avere, quindi, deposto tutto quanto di noi abbisogna di riparazione, cancellazione o assoluzione.
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Qualcosa di simile è prospettato in fondo da Platone. E precisamente, nella “Repubblica”, là dove si narra del mito di Er, la storia del guerriero che torna dall’aldilà e ci racconta cosa accadrebbe alle anime dopo il loro distacco dal corpo.
Anche qui tra l’altro fa capolino un demone anche se, rispetto a quello di Nietzsche, peraltro assai ammansito. Un demone infatti che non impone il diktat se ben disporsi o meno alla sua, terribile o meravigliosa che sia, ma certo stupefacente, visione. Un demone anzi di cui siamo noi a disporre.
Ci racconta infatti Platone che quando verrà il momento di scegliere tra le possibili sorti quale sarà quella della nostra prossima vita “non sarà un dèmone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtú non ha padrone; secondo che la onori o la spregi, ciascuno ne avrà piú o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile” (Repubblica, 617d)
Il demone è quindi il nostro daimon che, come quello che parlava a Socrate, va dunque inteso come ciò che coincide con la nostra sorte, con la vita, il tipo di vita che avremo. E quindi anche innanzitutto il tipo di visione della vita (e di visione del tempo dunque, anche, o circolare o lineare ad esempio). Ma, se stiamo al gioco di Platone, quindi, ognuno, ogni anima, il suo demone se lo sceglie e quindi ha margine di scelta per il tipo di propria vita ventura.
Racconta quindi il mito (Repubblica 617d-618d) che la scelta della propria futura sorte avverrà dopo che l’araldo divino avrà ” scagliato al di sopra di tutti i convenuti le sorti e ciascuno raccoglieva quella che gli era caduta vicino…. Chi l’aveva raccolta vedeva chiaramente il numero da lui sorteggiato. Subito dopo <l’araldo> aveva deposto per terra davanti a loro i vari tipi di vita, in numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano di ogni genere: vite di qualunque animale e anche ogni forma di vita umana. C’erano tra esse tirannidi, quali durature, quali interrotte a metà e concludentisi in povertà, esilio e miseria. C’erano pure vite di uomini celebri o per l’aspetto esteriore, per la bellezza, per il vigore fisico in genere e per l’attività agonistica, o per la nascita e le virtú di antenati; e vite di gente oscura da questi punti di vista, e cosí pure vite di donne….Il resto era tutto mescolato insieme: ricchezza e povertà o malattie e salute; e c’era anche una forma intermedia tra questi estremi. Lí, come sembra, caro Glaucone, appare tutto il pericolo per l’uomo; e per questo ciascuno di noi deve stare estremamente attento a cercare e ad apprendere questa disciplina …vedendo se riesce ad apprendere e a scoprire chi potrà comunicargli la capacità e la scienza di discernere la vita onesta e la vita trista e di scegliere sempre e dovunque la migliore di quelle che gli sono possibili….. Cosí, tirando le conclusioni di tutto questo, egli potrà, guardando la natura dell’anima, scegliere una vita peggiore o una vita migliore, chiamando peggiore quella che la condurrà a farsi piú ingiusta, migliore quella che la condurrà a farsi piú giusta….”
Ebbene: e se davvero avessimo la possibilità di giocare una partita come questa, che sceglieremmo davvero noi? E se avessimo anche la possibilità di scegliere, tra le possibilità che sono poste a Er, pure la possibilità di ripetere tutta la nostra vita identica? Cosa sceglieremmo? Lasceremmo la vita che siamo e che conosciamo, il certo, per l’incerto? Forse, anche in questo caso, il rischio di una vita peggiore non ci indurrebbe in fondo a scegliere quella che già abbiamo e conosciamo? In una specie di scommessa pascaliana, ma senza arrischiare troppo nell’azzardo, forse non lasceremmo il certo per il rischio di una realtà peggiore. O forse, anche in questo caso, tenteremmo di vedere se ci sia magari pure la possibilità di scegliere l’opzione della nostra stessa vita ma emendata e corretta. La nostra vita rivissuta, ma in modo più avveduto e saggio.
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Ora: le considerazioni di cui sopra, anche se sollecitate nientemeno che da Platone e Nietzsche, sono sì sincere, ma anche solo in fondo di buon senso. Non particolarmente originali, nè teoreticamente a fondo strutturate, men che meno che so eroiche o che altro. Però credo che davvero se dovessi, interpellato a bruciapelo o comunque coinvolto in situazioni quali quelle da Nietzsche e Platone immaginate, darei le risposte di cui sopra.
Ma poi, certo, dopo questo primo approccio mi si pongono questioni squisitamente teoriche e filosoficamente assai importanti.
D’altronde quello di Platone è un mito, a cui in realtà non presto fede. Non riesco cioè davvero a credere che potrò mai scegliere un giorno, in mezzo ad Er e gli altri, un destino nuovo così come descritto nella narrazione del guerriero. Quanto a Nietzsche ritengo invece che il suo discorso sia davvero serio e che la sua teoria vada attentamente ponderata, anche se credo che riconoscerne la verità non so se mi cambierebbe poi granché. Perchè, qualora fosse vera, allora esattamente tutto si ripeterebbe, e quindi anche il tempo del mio non saper nemmeno che esista un’idea come quella dell’eterno ritorno, e il tempo del non ritenerla vera, e il tempo (qualora fosse) dell’accettarla vera e cioè del tempo del digrignar di denti o della supeomistica esultanza. E poi, che so, il tempo del pensare anche altre opzioni; tempo che, anche qualora tali altre opzioni fossero false, anch’esso, come ogni tempo, eternamente ritornerebbe. Dunque vivrei esattamente come vivo, e punto.
Però la questione del come ri-sceglieremmo la nostra vita in generale è teoricamente interessante anche perchè pone, a ben pensarci, in evidenza come decidere come rifare la nostra vita in fondo sarebbe comunque giocare un po’ alla cieca. Perchè a tutte le nostre vite, a noi che le stiamo ancora dipanando, manca in realtà ancora la conoscenza, spesso fondamentale e decisiva, del suggello, del finale che è spesso ciò che dà il vero senso alle varie storie.
Ma soprattutto la questione pone in evidenza come in tutte queste considerazioni giochi un importante presupposto: che quanto accade sia quel che è e che tal quale passi nel passato, ove va a costituire il dato sulla cui base poi mi pongo il problema se sia meglio eternamente ripeterlo oppure no, o in generale il problema se sia meglio vivere questo destino oppure piuttosto un altro.
Ma se il passato invece, in realtà, così inteso non esistesse? Nel senso magari che in realtà il passato non è che ricordo e interpretazione, di continuo modificato, e quindi mai in realtà un dato, un fissato
In fondo è proprio questo che ci insegnerebbe un certo modo di intendere l’ermeneutica. Per la quale il passato è qualcosa che continuamente si riconfigura, letto sempre solo dal punto di vista del presente e dunque il passato in sè in realtà non esiste e dunque una storia che sia lì scritta, magari pronta per essere niccianamente rivissuta, in realtà non c’è. Passato, dunque, sempre e solo interpretato, e reinterpretato. Perciò mai sempre lo stesso.
Al riguardo fa un esempio interessante Carlo Sini in “Il silenzio e la parola” (Marietti, 1989, p.68): “Tizio amò Caia, tempo fa; ma venne il giorno in cui, dopo aspre liti e fugaci riconciliazioni, Tizio e Caia decisero di lasciarsi. Negli anni successivi, Tizio ha via via reinterpretato il fatto, scoprendo ogni volta che altro da ciò che ne aveva prima pensato era accaduto tra loro “in verità”. Caia, durante questo tempo, aveva fatto altrettanto. Ma che cosa, in definitiva, era davvero accaduto? I due potrebbero ricorrere a un terzo, a un amico allora testimone della vicenda: che accadde tra noi? Perchè ci lasciammo? Chi sbagliò per primo? Eppure ci amavamo sinceramente, non è vero? L’amico ha in merito la sua opinione, o almeno l’aveva, e così l’amica, il collega, i parenti. Ma perchè una sarebbe più vera di un’altra? Con che diritto uno sguardo potrebbe dire di aver visto e capito il senso del tutto di quella vicenda? Guardando da dove e in base a quale misura? Ma se nessuno dei protagonisti e i testimoni può dirlo, chi mai in seguito potrà dirlo? Lo psicanalista di Caia? Il padre di Tizio (che era sempre stato contrario)? In verità, accadde tra me e te, ma nè io nè tu sappiamo cosa e perchè, nè lo sapremo mai una volta per tutte. E infine, in verità, ce ne dimenticheremo. Non proprio il fatto (questo evento divenuto pubblico della nostra vita pubblica), ma le passioni che lo animarono, lo fecero accadere e lo accompagnarono per un bel po’. Tizio non ha più “interesse” a sapere cosa accadde e perchè. Caduto l’interesse, vien meno ogni possibilità di sapere (meglio sarebbe dire: di esperire nel suo errare) la “verità”, poichè cessa ogni interpretazione e reinterpretazione: tanti anni fa mi fidanzai con Caia; fu un periodo turbolento; non andava tra noi, e tutto finì”
Qui si adombra il gioco dell’ermeneutica infinita, certo. Ma non solo. L’esempio proposto da Sini vuole porre in rilievo anche che “i fatti del nostro passato restano per lo più indecidibili“. E che per di più sono precari, perchè esistono “sino a scomparire nel nulla“, perchè alla fin fine “il passato del vivere “privato” affonda nel nulla senza accedere per nulla a la “verità”. E nessuno invero se ne stupisce. Il passato resta con noi fino a quando continuiamo a intepretarlo (o a esserne soprattutto interpretati, in quanto inquisiti, incalzati, interpellati dai suoi segni)….”. Qui cioè emerge anche il fatto che, dell’interpretazione in cui il passato in fondo consiste, alla fine non ne è più nulla, davvero nulla. Anche perchè se, nella citazione sopra, Sini circoscrive quanto dice all’esperienza privata differenziandola quindi da quella pubblica – sottintendendo quindi che l’esperienza pubblica avrebbe dunque possibilità di costituirsi invece come un fatto – alla fine però anche l’aspetto pubblico della vicenda (ci siamo fidanzati, e poi lasciati) non sarà più nulla, quando non ve ne sarà più alcun segno che nessuno potrà mai più interpretare.
Inoltre in realtà quel che dice, e pure correttamente, Sini, secondo me, non è punto e basta che dunque il passato sia qualcosa che consiste tout court nell’interpretazione che ne do. Infatti, nell’esempio proposto non tutto è interpretazione, perchè la vicenda è quella che è, e costituisce il fatto – che non è interpretazione a sua volta – che viene interpretato. Del passato dunque, di quanto è ricordato, molto è pensato come oggettivamente dato e quindi come oggettivamente ricordato. Si evolvono e cambiano l’interpretazione dei fatti, la figura complessiva e il senso del passato, ma i fatti ci sono: il fatto che Tizio e Caia sono stati assieme, che si sono lasciati; ma anche il fatto che c’è un lui che è Tizio, e una lei che è Caia.
Ma alla fin fine anche Sini in ultima analisi riconosce che, quando infine non vi sarà più alcun interprete, anche il passato tutto, qualunque cosa fosse, se ne svanirà e tutto sarà come se non fosse neanche mai esistito (ma era il passato esistito poi mai davvero?).
E tutto questo ha certo molto di sensato. Però, per poterlo valutare correttamente e appieno, dovremmo affrontare finalmente e direttamente la vera autentica questione che sta al fondo di tutto questo ragionare. La questione che aleggia intorno ai pensieri di Nietzsche sull’eterno ritorno, o a quelli di Platone circa il destino della nostra futura sorte. O intorno al senso della storia di Tizio e Caia che Sini ci propone per approfondite riflessioni. La questione, filosoficamente importante e decisiva, dello statuto ontologico del passato.
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E’ intorno alla questione appunto dello statuto ontologico del passato che si pone l’effettivo contesto implicito su cui fondiamo la nostra decisione sul come atteggiarci verso il tempo, per esempio decidendoci di credere nell’eterno ritorno o meno, o di credere di poter optare per un destino o un altro, o per una certa identità e senso della nostra storia piuttosto che altre. E’ la risposta che diamo circa lo statuto ontologico del passato il metro da cui partiamo per formulare le nostre preferenze sulle modalità delle nostre vite, posto che il passato siamo noi in quanto solo il nostro passato e quanto ha con esso a che fare è quanto di noi possiamo davvero sapere di essere.
Per cui, in prima approssimazione, c’è da dire che, anche se si assume l’interpretazione ermeneutica del passato sopra descritta, la questione dell’eterno ritorno non viene perciò accantonata. Non solo perchè appunto che il passato sia investito dall’eterno ritorno è e resta una delle interpretazioni sempre possibili; ma inoltre perchè, anche qualora il passato non consistesse che in una sempre variante e variabile ermeneutica di quanto è stato, il demone di Nietzsche potrebbe lo stesso strisciare vicino a noi furtivo e riproporci la sua visione e la sua domanda, questa volta riferita al ripetersi all’infinito delle nostre successive interpretazioni del nostro passato. Perchè anche se la vita allora altro non fosse che un’ermeneutica di essa vita, sempre potremmo riproporci la domanda se davvero rivorremmo la stessa vita, la stessa interpretazione. E pur sempre potremmo reagire alla rivelazione del demone in fondo in qualsiasi modo, magari accogliendo positivamente l’annuncio, al limite sollevati per avere evitato di rischiare di peggio.
E inoltre, forse a maggior ragione ancora, potremmo sempre lo stesso sperare e volere, potendo, di emendare il nostro passato, o di porre rimedio a quanto in esso è avvenuto e non ci piace, magari appunto semplicemente reinterpretandolo al punto magari di letteralmente cancellare le parti di esso di cui rifiutiamo la memoria e riconfigurare le altre. Per cui direi pure che la forza dell’ipotesi ermeneutica può stare anche nel fatto che essa ci attrae per il suo assecondare un nostro desiderio profondo di poter rimaneggiare il passato, e quindi le nostre vite, a nostro piacimento e far sì, così, che i nostri errori e dolori non siano più incombenti nella nostra memoria. Chissà che non sia proprio questo nostro desiderio in gran parte a spingerci a porre l’ipotesi ermeneutica, che resta comunque appunto sempre solo un’ipotesi, o un desiderio, finchè continua ad eludere, non ponendola, la decisiva questione: quella, come già detto, dello statuto ontologico del passato.
Ma che il passato non sia, o che sia di per sè uno svanire è idea che può perlomeno essere investita dal dubbio. Dubbio che sorge ogniqualvolta si imponga qualche ricordo, e non tanto di fatti che vorremmo non fossero stati, quanto piuttosto quando il ricordo si staglia nella sua completa evidenza e bellezza struggente (quale è per esempio l’attimo di felicità che per Nietzsche è sufficiente a giustificare la volontà dell’eterno ritorno).
E’ allora che il ricordo lo sento alludere al riapparire di ciò che è, o al ripresentarsi della cosa stessa.
Come con la madelaine di Proust. (e come ho cercato di pensare in questa altra occasione.
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