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Posts Tagged ‘ambivalenza’

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Dicono

che il primo amore sia il più importante.

Ciò è molto romantico

ma non è il mio caso.

Qualcosa tra noi c’è stato e non c’è stato,

è accaduto e si è perduto.

Non mi tremano le mani

quando mi imbatto in piccoli ricordi

e in un rotolo di lettere legate con lo spago

nemmeno con un nastrino.

Il nostro unico incontro dopo anni,

la conversazione di due sedie

intorno a un freddo tavolino.

Altri amori

ancora respirano profondamente in me.

A questo manca il fiato per sospirare.

Eppure proprio così com’è,

è capace di ciò di cui quelli

non sono ancora capaci:

non ricordato,

neppure sognato,

mi familiarizza con la morte.

(Wislawa Szymborska)

***

L’affettività in cui, anche, consistiamo alimenta ogni nostra ricerca, ogni nostra relazione, ogni nostra dinamica. Le sue forme e sfumature sono molteplici. Ma tutte sono calibrate intorno a una figura che in qualche modo le alimenta tutte, dando quella misura il cui plesso semantico i Greci hanno nominato Philìa, o Eros.

Anche la filo-sofia, in quanto philìa, trova misura nella tensione in cui questa forma affettiva consiste e perciò filosofia è sempre in qualche modo pratica e discorso amoroso. Talvolta può essere esplicitamente anche discorso su amore. Platone su questo ci è antico maestro, ma anche altri e altri – non solo Platone – si sono arrischiati nel dire su Amore. Sentieri sono stati così da discorsi percorsi, un mappa del dire d’amore è stata in tal modo tracciata.

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Sul tema molto da dire hanno però anche i poeti. Wislawa Szymborska ad esempio,  nei versi cui sopra, nel suo rammentarci il legame tra l’amore e la perdita (dunque tra l’amore e la morte). Ma anche altri e altri meritano attenzione ed ascolto, e non solo poeti: tutti coloro che hanno disposto in parola quanto è traccia del desiderio che alimenta la vita ed è richiamo ad aprire l’orizzonte cui Amore ci avvia.

Frammenti

Pensando mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi mi sono moltiplicato.

(Fernando Pessoa)

Il discorso su amore non può perciò, anche date le più disparate fonti da cui è stato alimentato e intessuto, che dispiegarsi polivoco, articolarsi in frammenti (in un gioco che consente il rifrangersi di echi ed abissi).

Corrispondendo alla natura di Amore, in cui il senso lampeggia intenso e profondo ma a sprazzi e spezzato e non certo articolato in un discorso disteso secondo pura ragione, già Platone di questo è del tutto avveduto: nel Simposio perciò quando Diotima tratteggia la figura di Eros lo presenta a pennellate incisive e secondo diversi lati prospettici ognuno perfettamente calzante, ma anche ciascuno a sé stante nonché per sé insufficiente a esaurirne figura.

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Diventa ciò che sei”

(Friedrich Nietzsche)

*

“L’unico modo di andare d’accordo con la vita è essere in disaccordo con noi stessi“ 

(Fernando Pessoa)

***

L’attimo – in cui si illumina il presente che via via ci invade e in cui tutta la nostra vita via via si concentra – è sempre attraversato da tensioni e perciò non sosta. Passiamo sempre oltre l’istante in cui – pur sospesi un momento – mai restiamo. Mai acquietati né acquietabili in un approdo, noi siamo inquietudine.

Nella luce dell’apparire – la luce in cui consisto, permanente sfondo – l’accordo col mondo è assecondare questo lento spostamento nel dipanarsi dello spettacolo che si dispiega. Questo spettacolo ci capta. Ipnoticamente attratti in esso, là, un po’ più in là, sempre ci chiama.

La quiete in cui nell’attimo mi poso perciò si smuove. Da questo spostamento io vengo. In questo spostamento io consisto. Qui è ogni tensione, ogni desiderare, ogni vibrazione che muova la mente e i sensi, e anche ogni collasso in trauma. Questa è l’inquietudine che mi pervade.

Noi siamo inquieti. E lo siamo perché vivi. Poichè vivi, i nostri corpo e mente hanno dinamiche e energetiche. Perciò hanno inquietudini. Inquieto è il godimento di esserci qui ora, ma anche la tensione del nesso al prima e al poi inquieta. Nell’inquietudine di cui siamo perciò intessuti la tensione che tutto ciò comporta è, nel fondo, anche la sottile sofferenza dell’essere spinti altrove volendo restare qua e dell’essere qui tendendo altrove.

Questa sofferenza è nel profondo. Più sei perciò profondo e quindi più vai nella profondità che – per lo più inavvertitamente – abiti, più – tanto o poco, ben delineata o vagamente presentita che sia – l’inquietudine, che sempre già c’è, emerge.

L’inquietudine in tal modo pungola, incita, spinge all’attrazione verso il mondo e gli altri. Ma insieme rode, negando sosta in pace e quiete dell’abitare nel puro istante. Per l’inquieto nessuna casa è mai una volta per tutte definitivamente sua, nessuna sosta è definitiva, nessun incontro è per sempre. Purtuttavia l’inquietudine nemmeno lascia che ciò che deve andare vada: nella tensione vibrante e oscillante, in cui essa consiste, quanto va è preso per la giacca, trattenuto. Nell’inquietudine, in ogni provvisoria quiete  raggiunta (in quanto è solo nella quiete che l’inquietudine ha il suo nido), in una sospensione (e)statica – assente la quale ogni tensione perde il terreno su cui poggia – ogni essente è chiamato tirato da una parte ma insieme anche da un’altra.

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Nell’insieme delle tensioni contrapposte, in cui l’inquietudine consiste, un’energia cerca così sbocco, ma non si lascia andare e perciò si accumula e ingorga: inquieta. In tal modo però l’inquietudine, se non lacera, spinge in avanti. In questo senso è radice e lievito di ogni nostro godimento e di ogni nostro soffrire. Archi tesi, concordanti discordanti nel vibrare di forze contrapposte – quali nell’eracliteo tutto fluente che tutto include – gli inquieti solo in tal modo possono scoprire sè.

Io incontro me stesso, tu incontri te, in quel che (nell’inquietudine) ci accomuna. La mia inquietudine e la tua sono sì dunque anche sottile angoscia, che ben conosciamo ma di cui poco parliamo. Ma sono anche intensità e fermento, di cui solo l’inquieto è capace.

Se anche tu tutto ciò lo riconosci tuo, e dunque nelle mie parole (ri)conosci la tua inquietudine, mi comprenderai.

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