1: Cultura di massa come nuova levatrice del pensare?
La “pop filosofia” si sta diffondendo come nuova categoria “demitologizzante” e “antiaccademica”, con l’intento dichiarato di far uscire (socraticamente?) la filosofia dalle aule universitarie e di immergerla nell’agorà mediatica della popular culture, quasi costringendola ad un salutare bagno attraverso il confronto con un universo iper- e multimediale dove tormentoni orecchiabili, serie tv, cartoons, graphic novels, reality show, fiction di largo consumo farebbero da levatrici postmoderne del pensare nell’epoca della “fine delle Grandi Narrazioni” secondo il noto verdetto, apparentemente inappellabile, di Jean-François Lyotard. “Se la filosofia è una forma di gioco o di esercizio estremo, la cultura pop e i suoi media sono, oggi, un campo d’azione imprescindibile per la filosofia… Il mondo della cultura pop è il nostro mondo, cui non sfugge nemmeno la filosofia” (S. Regazzoni, Pop filosofia, pp. 11-12). La definizione di “filosofia” qui proposta (“forma di gioco o di esercizio estremo”) rivela subito la matrice postmoderna e soprattutto poststrutturalista di queste incursioni nell’immaginario collettivo. Ovvio, infatti, che se la filosofia è un gioco, essa deve misurarsi in primo luogo con altri giochi.
Tuttavia, che la nuova levatrice del pensiero sia la cultura di massa non è una novità assoluta: è almeno dai tempi di Walter Benjamin e di Siegfried Kracauer che la critica filosofica cerca di fare i conti con l’immaginario collettivo depositato in film, canzoni, fumetti e personaggi televisivi (dalle Tiller Girls di Kracauer alla fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco). Ed è dagli anni Cinquanta dello scorso secolo che si dibatte su masscult, midcult, cultura amministrata e via dicendo. Gli artigiani del Masscult, diceva Dwight MacDonald (molto vicino alle posizioni di Adorno e Marcuse), sono al lavoro da tempo. Il punto di arrivo, allora, erano prodotti di massa come i romanzetti rosa, il rock’n’roll, le oleografie di Rockwell, la proverbial philosophy di Tupper e i prodotti per la radio, la tv e il cinema. Ma il Masscult è scadente in modo nuovo: non può essere buono nemmeno sul piano teorico. “Il Masscult non offre ai suoi clienti né una catarsi emozionale né un’esperienza estetica, perché queste cose richiedono uno sforzo. La catena di produzione macina un prodotto uniforme il cui umile scopo non è neppure il divertimento, perché anche questo presuppone vita, e quindi sforzo, ma semplicemente la distrazione. Può essere stimolante o narcotico, ma dev’essere di facile assimilazione” (D. MacDonald, Masscult e midcult).
Oggi la diagnosi di MacDonald sembra essersi rovesciata. L’arte “a buon mercato”, la presse du coeur, la musica liquida, i film e le serie tv scaricabili sull’ipad e “consumabili” ovunque e comunque, hanno colonizzato l’intero orizzonte dell’esperienza, civettando con riflessioni estetiche e speculazioni gnoseologiche ed etiche di ogni genere. Sembra che anche le più controverse questioni morali e logiche si possano più facilmente visualizzare, rappresentare, “fotografare” e soprattutto meglio interpretare grazie alle vicende delle disinibite protagoniste di Sex and the City o al cinismo programmatico di un Gregory House (Dr. House – Medical Division). Alla proliferazione di libri che cercano di pensare a partire da questi serial televisivi non è infatti estranea la dura necessità della traduzione didattico-pratica, talvolta anche didascalica, di pensieri che, altrimenti, l’opinione pubblica media tende a liquidare come “astratti”, “accademici”, “compiaciuti”. Non a caso questi libri sono scritti, almeno in Italia, da contrattisti, cui toccano spesso i corsi di base che gli ordinari si rifiutano di tenere. La filosofia in tal modo si quotidianizza, si porta al livello del sentire diffuso: diventa più democratica.
E tuttavia bisogna chiedersi: questo confronto della filosofia con l’universo della cultura pop non rischia di legittimare un universo mediale in cui non la phronesis aristotelica, non il Begriff hegeliano e nemmeno l’Essere heideggeriano sembrano gli orizzonti di senso cui riferirsi? E, d’altra parte, non è forse vero che la filosofia da sempre si confronta con l’intero dell’esperienza, di cui oggi fa parte quasi costitutivamente la cultura pop (televisiva, commerciale, popolare, ipermediale, spettacolare, orientata all’entertainment, all’amusement, ecc.)?
2: Oggettivo, soggettivo, intersoggettivo
La ragione di una simile agenda filosofica sta in un certo senso nell’ordine delle cose, che riprendendo Donald Davidson ha un lato oggettivo, uno soggettivo e uno intersoggettivo.
In base al primo, tale agenda dipende dall’oggettiva strapotenza multimediale – amplificata da internet – dell’industria culturale, con la sua capacità non solo di penetrare, ma di forgiare integralmente l’immaginario collettivo, resa possibile da enormi investimenti che le consentono di sfornare a getto continuo godibilissime (oggettivamente) e piacevolissime (soggettivamente) serie televisive, film, canzoni di presa immediata, ecc. facendosi largo nell’inland empire o, forse, colonizzandolo completamente. Se “il mondo vero è diventato favola” (Nietzsche, Crepuscolo degli idoli: primo dogma del postmoderno), se la realtà è una “credenza” che non resiste alla forza del possibile (Deleuze), allora non c’è oggetto, né soggetto, che non sia interamente inscritto nell’orizzonte del simbolico e dell’immagine. Modificando lievemente un’osservazione di Julia Kristeva, citata da Paolo Bertetto nel suo libro su David Lynch, possiamo dire che «l’immaginario mediatico è divenuto non soltanto la realtà della coscienza, ma la Sola Realtà Oggettiva». Ne deriva un filone di pubblicazioni che si misura con un’oggettività ineludibile e che per farlo deve utilizzare strumenti filosofici, non per capriccio o anticonformismo antiaccademico, ma perché ormai il nostro immaginario è fatto in gran parte dei film di Hollywood, della musica nell’epoca della sua “scaricabilità” integrale, per non dire delle innumerevoli serie tv, prevalentemente americane (ma non solo), in una sequela in cui ormai figurano dei classici: Twin Peaks, The Simpsons, Harry Potter, Lost, Dr. House, Battlestar Galactica, Mad Men e via dicendo. L’ineludibilità di tale confronto è testimoniata peraltro anche dalla nota collana edita da Wiley/Blackwell (The Blackwell Philosophy and Pop Culture Series).
In base al secondo, essa deriva dall’ormai avvenuta affermazione nel dibattito filosofico di giovani felicemente socializzati dai mass media e dall’industria dell’entertainment, formati cioè non solo nelle aule dei licei e delle università italiane ed europee, ma anche dalla cultura televisiva e popolar-mediatica, prevalentemente americana. Simone Regazzoni (Genova, 1975), uno dei filosofi più attivi e brillanti in questo campo, rifiuta “postmodernamente” di teorizzare la pop filosofia (cioè di chiarirne lo status concettuale), in nome della sfida che la filosofia “alta” deve raccogliere con la cultura pop. Egli conseguentemente definisce il lato soggettivo di questa condizione come il tentativo di parlare dell’opera d’arte nell’epoca di Belén Rodriguez: la cornice museale, la mostra, la galleria e quant’altro produce l’opera d’arte, come nello spot commerciale in cui appunto si vede la nota soubrette “creare” un’opera d’arte con un cumulo di plastica da imballaggio; allo stesso modo, il sistema dei media crea il personaggio di turno, nonché la struttura narrativa di cui “si” parla, nobilitando o volgarizzando (dalle citazioni dotte di Criminal Minds o delle graphic novels di Alan Moore e Will Eisner alle trivialità compiaciute di serie celebri come South Park, Dirt, Weeds…), scomponendo o riunificando i generi e i linguaggi, in un crossover che mette insieme musica pop, fumetto ‘alto’ o graphic novel, serie tv ormai studiate nelle università statunitensi, ecc. E dentro queste contaminazioni, ibridazioni, iperfetazioni linguistiche e narrative, che si muovono a loro agio tra saggistica, narrazione, poesia, fumetto, cinema si muove tutto un filone letterario, soprattutto italiano, da Tiziano Scarpa ad Aldo Nove, da Valerio Evangelisti al collettivo Wu-Ming (New Italian Epic).
Il lato intersoggettivo di questa agenda sta nella possibilità di un crossover di competenze filosofiche che non si barrica dietro la propria area di indagine. La filosofia pop diventa cioè il terreno d’incontro e di confronto extra-accademico tra filosofi puri, scrittori, giornalisti free lance, italianisti, studiosi di estetica e saggisti vari al di fuori delle appartenenze e delle “professioni di fede” tipiche dell’accademia. Grazie a questo crossover o ibridazione delle appartenenze i testi vengono fatti agire al di fuori di schemi e indirizzi precostituiti.
3: Dissidio e contraddizione
In questo modo la filosofia accademica viene sfidata a confrontarsi con fenomeni di questo genere, a pensare la società dello spettacolo senza la garanzia di un punto di vista esterno ad essa. Se la società dello spettacolo è la società che mette in scena il proprio carattere di merce (Debord), la pop filosofia si prefigge, in una sorta di perversione estetica del feticismo delle merci, un’amplificazione-distorsione dei capricci metafisici e delle sottigliezze teologiche della merce, timpaneggiando – per dirla con Derrida – la società dello spettacolo suonando ad essa la propria musica, proprio come Marx aveva fatto con la sua critica dell’economia politica. Una strategia dialettica, una critica immanente, una trascendenza dall’interno: infatti, proprio nel tentativo di auto-immunizzarsi dalla merce, pensandosi come un territorio puro e incontaminato, spiritualmente immune dalla reificazione, la filosofia diventa essa stessa merce, rubricabile nella categoria merceologica “prodotti dello spirito”. Nella“pop filosofia” sono perciò all’opera “il dissidio e la contraddizione” (Regazzoni), perché essa non si sottrae a questa sfida. Essa assume dissidio e contraddizione dentro di sé, appropriandosene e confrontandosi con essi, anziché sperare di sottrarvisi avanzando pretese su un mundus intelligibilis o su una Verità Oggettiva di cui essa non dispone.
4: Il fattore Belén Rodriguez
La “pop filosofia” in realtà non è un fenomeno totalmente nuovo: è almeno dai tempi di Simmel, Benjamin e Kracauer che la filosofia si cimenta con i prodotti della cultura di massa (o della “popular culture”, se cultura di massa può sembrare dispregiativo), cercando di approntare un’ermeneutica in grado di criticare, decostruire, ma anche di cogliere semiologicamente significati e significanti della cultura pop. E del resto non si può negare, ormai, che alcune serie tv, alcuni album della musica “extra-colta”, alcune graphic novels e romanzi contemporanei siano veri e propri capolavori, ibridazioni di linguaggi e di modalità espressive non riconducibili ai canoni del bello tradizionale: personalmente penso soprattutto a Watchmen, la celeberrima graphic novel di Alan Moore e David Gibbons. Ma, al di là delle preferenze soggettive, esiste un criterio per affermare che alcune opere pop sono capolavori o tutto si riduce all’“opera d’arte nell’epoca di Belén Rodriguez”?
5: Filoni, feticci, culti
La necessità di una “pop filosofia”, di una filosofia che abbandoni il punto di vista sacrale e oracolare per confrontarsi realmente con le cose di cui tutti fanno esperienza, dipende dalla natura di queste opere pop. Esse infatti sembrano inibire quello che per il Kant della Kritik der Urtheilskraft è il vero giudizio estetico, il giudizio riflettente, in quanto esso non sussume il particolare entro un’universalità già data, ma ricerca l’universale attraverso il particolare, anziché applicare regole prefissate (canoni formali di bellezza ecc.). E però: in che misura un telefilm, un fumetto, una canzone pop, ci permettono di sottrarci alla sussunzione, all’applicazione di una regola, dato che la regola che si assume nel giudicare queste produzioni è pur sempre il fatto che parlano a un “vasto pubblico”, che cioè devono incontrare il consenso (e il consumo) generalizzato (altrimenti Spielberg non va a girare E.T., seguito di Incontri ravvicinati del terzo tipo, né George Lucas avrebbe girato e ri-editato tutta la saga di Star Wars)? Qui andrebbe chiarito un punto a mio avviso centrale: ovvero, che serie televisive e affini sono prodotti sociali. Quello che scriveva Kracauer del film – che esso non è mai il prodotto di un singolo individuo, ma è sempre un’impresa collettiva, frutto di un lavoro e di una percezione sociale – vale ancora di più e ancora meglio per i serial tv. Sceneggiatori e pubblico (ormai ribattezzato fandom) concorrono in uguale misura al loro successo o al loro insuccesso, e si può anzi ormai sostenere che le nuove tecnologie digitali e audiovisive come l’home theatre, gli schermi ad altissima definizione, le visioni differite e/o parcellizzate (Youtube ecc.), la possibilità di download ecc. favoriscono una perfetta identificazione con le molteplici dinamiche delle interazioni umane rappresentate nelle epiche domestiche e addomesticate delle produzioni televisive seriali.
6: Targetizzati
C’è poi il fattore “targetizzazione”, di cui ha parlato recentemente Remo Bassetti (Contro il target, 2008): non è affatto trascurabile – nonostante tutte le critiche mosse all’idea francofortese di “industria culturale” come mistificazione pianificata dall’alto – che queste opere sono oggi come allora costruite a partire da un target, cioè da una precisa e predeterminata segmentazione del pubblico in gruppi relativamente omogenei, individuati a priori con tecniche di marketing. Esse sono “esclusive per tutti” (Carboni), cioè costruite e dirette in modo che ciascuno possa credere che quella storia è stata scritta pensando anche a lui/lei e che in fondo tutto non va poi così male se quelle cose capitano persino agli “eroi” televisivi (da uno scienziato sui generis come Grissom (C.S.I.) o a un oncologo accorto e sensibile come Wilson (Dr. House – Medical Division), ecc.). La “pop filosofia” smaschera il fatto che ogni impresa, giornalistica, editoriale, di spettacolo o culturale che sia (ma più che di opere forse si dovrebbe parlare di “opere/operazioni”), pianifica a monte quale sarà il suo pubblico di riferimento. Ciò produce, dal punto di vista della creazione, la proliferazione di “generi” anziché di “opere”, di “filoni” anziché di “stili”, di “trame” e di “plot” anziché di “storie”. Dal punto di vista della ricezione, invece, si creano “fan”, “fandom”, “feticci”, “idoli”: serie, autori, film “di culto”, nuove idolatrie e nuove mitologie al passo con i tempi in cui bisogna coltivare l’individuo come “macchina desiderante” (Deleuze). L’estetizzazione diffusa della società dello spettacolo produce un’anestesia di fondo. L’educazione estetica dell’uomo non è nelle corde dello show business.
7: It’s Beautiful, my darling
In tal modo l’esperienza estetica segue le fattezze della tipica struttura seriale di queste opere/operazioni, in cui l’unicità, la singolarità, l’irripetibilità che un tempo caratterizzava la produzione artistica è scartata a priori: fatte le debite eccezioni, tutto ciò che entra nell’universo ipermediale, dal telefilm alla canzonetta pop, è suscettibile di riprese, repliche, cover, rifacimenti, clonazioni, spin-off, prequel, sequel… Meglio ancora: la natura “ripetibile” di tali opere/operazioni è inscritta sin dal principio nella sua stessa “progettazione”. Trattandosi di produzioni alquanto sofisticate e quindi costose, i produttori costringono gli autori a inventarsi “finali aperti” e mai definitivi (comprese morti e resurrezioni dei vari personaggi: si pensi al personaggio di Taylor in Beautiful). Virtualmente una serie tv – si pensi a una “soap-opera” come Beautiful di cui sono state prodotte ormai quasi 6.000 puntate – può andare avanti per sempre. E come Samara nel film horror The Ring l’immagine deborda, allaga, contorce e distorce i volti, sequestra e infine squarcia gli sguardi di chi troppo a lungo si concede a lei. Di fronte ad essa non abbiamo margine di manovra: siamo incatenati ad essa come i tre malcapitati nell’orripilante e moralistica scena iniziale del film Saw 3D.
8: Anestetizzazione derealizzante?
Come aveva detto Susan Sontag, la realtà coincide ormai con quello che vediamo attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica (che sia poi montata su un telefonino, su una webcam o collegata a un circuito chiuso la sostanza non cambia): perciò diffidiamo della realtà quando questa non è conforme alla sua rappresentazione “fotografata”. Ciò è dovuto a quello che uno studioso italiano di estetica, Pietro Montani, ha definito “anestetizzazione derealizzante” delle “immagini pregnanti”, quelle immagini che si impadroniscono dello sguardo e gli impongono – una volta per tutte – una sola direzione: mentre ancora il (grande) cinema era unità di specificità tecnica e metodologia narrativa, di immediatezza percettiva e di adombramenti, sottrazioni allo sguardo, invisibili visibilità (si pensi a Blow up di Antonioni o a The Draughtman’s Contract di Greenaway), una serie tv, un reality show, un cartone animato, un gioco della PS3 o sul PC, proprio per la loro serialità, per il loro aderire a una regola comunicativa prefissata, producono il piacere estetico in modo indefinito solo attraverso la ripetizione, la stereotipizzazione, la fissazione omeotipica e potenzialmente escludente delle immagini pregnanti. Ma la derealizzazione si compie – si pensi in particolare al cinema di David Lynch, alla sua oggettivazione del mondo hollywoodiano che diventa “una componente essenziale” dell’universo filmico di Lynch (Bertetto) – anche per intensificazione emozionale, attraverso quell’amplificazione mostruosa del desiderio che si attua nell’ossessione, come i film di Lynch raccontano in modo magistrale. In tal modo la Realtà Oggettiva si squaglia, come in un quadro di Bacon, e il suo posto è preso dall’Impero della Mente, dallo Inland Empire, frammentario, arbitrario, contraddittorio, in una derealizzazione che sembra essere l’unica condizione di realizzazione del soggetto dissolto nei propri desideri, abitato da fantasmi, attraversato da forze che trascendono sia il conscio che l’inconscio.
9: In-esperienza estetica?
Che si tratti di South Park o del Grande Fratello, di YouTube o di Facebook, ci si muove dentro una bolla preconfezionata, standardizzata, in un copione che si ripete invariabilmente e il cui ripetersi è, appunto, an-estetico, perché consegnato a una reiterazione della riproduzione audiovisiva incessante, tambureggiante, che stordisce qualsiasi tentativo di mettersi altrimenti in ascolto e in visione. (C’è da chiedersi se c’è ancora qualcuno capace di contemplare un paesaggio resistendo alla tentazione di fotografarlo con il videofonino.)
Si potrebbe obiettare che anche i suoni di Cage o le famigerate scatolette di Piero Manzoni hanno effetti an-estetici. Eppure una differenza a mio avviso c’è: ci vuole una lunga educazione musicale, e bisogna aver sviluppato con finezza estetica l’attenzione (e l’orecchio) per giungere ad ascoltare i non-suoni di Cage o per vedere davvero il rovesciamento estetico delle scatolette di Manzoni; allo stesso modo, bisogna conoscere bene la storia della letteratura per non smarrirsi innanzi ai funambolismi linguistici di Gadda, Manganelli, Landolfi, alle ironie di Joyce o alle metafisiche laconicità di Beckett. E non certo perché esse sarebbero inserite in un contesto che in qualche modo le nobilita, conferendo loro la famosa “aura” benjaminiana (mentre la televisione o l’ipod toglierebbero aura, appiattirebbero, corromperebbero, anestetizzerebbero: non è questo il punto). I ragazzini-fantoccio di South Park, gli Spartani storicamente implausibili di 300 (sia nella graphic novel di Frank Miller che nella versione cinematografica di Zack Snyder), l’immediatezza delle immagini erotizzate della pubblicità producono tutti un narcotico effetto di assuefazione che abbassa sempre di più la soglia del piacere estetico, inibendo appunto la facoltà di giudizio e appiattendolo su un gusto a due poli, “mi è piaciuto/non mi è piaciuto” (modalità di comprensione del reale evidente, peraltro, nei “giudizi” bianco/nero che gli adolescenti danno su qualsiasi cosa). Alla fine, senza integrazioni “alte” (senza cioè aver goduto anche di un Don Quixote, di un Faust, di un Ulixes), tutto diventa equivalente con tutto, vanificando la capacità di distinzione che dovrebbe essere decisiva per interpretare, valutare e discernere criticamente gli oggetti del nostro sentire. Si può dire, allora, che l’in-differenza referenziale, come la chiama ancora Montani, la mancanza di uno sfondo adeguato su cui proiettare, orientandoli, i nostri giudizi per produrre ridescrizioni e reinvenzioni del mondo, sia diventata la condizione della nostra in-esperienza estetica?
10: L’imperativo del piacevole
L’in-esperienza estetica del nostro tempo diventa perciò un’esperienza sui generis, rispetto alla quale le categorie filosofiche paiono inadeguate, perché viste come incapaci di cogliere l’essenza ornamentale (Kracauer docet) e feticistica della cultura popolare di massa, il carattere effimero e seriale dei suoi prodotti, l’eclettismo che la domina e la conseguente impossibilità di cogliere in esso qualche “essenza” o “forma” (G. Vattimo). Vige l’imperativo del piacevole: e il bello stesso viene ricondotto al piacevole, con buona pace di Kant. Accanto alle narrazioni tradizionali delle classiche produzioni della cultura pop (da Topolino a Michael Jackson), oggi si impongono sempre più le ibridazioni di realtà e fiction proposte nelle serie più recenti, le quali non sono orientate da alcuna precisa legge formale o canone estetico-narrativo, in essi non vige alcun perfezionismo estetico, ma solo gli effetti impliciti di senso (Boris), il gioco decostruttivo (Twin Peaks, Lost), il motto di spirito e il batti-e-ribatti cinico (The Simpsons, Dr. House, Weeds…), il morboso e il ripugnante (oltre ai già ricordati C.S.I. e Dirt, Bones, Dexter, Nip&Tuck). Se una norma c’è, essa è solo quella del montaggio e dello smontaggio, della decostruzione ironica del reale, che lascia tutto perfettamente al suo posto, confermandolo in ogni suo dettaglio.
11: Il senso di colpa dell’I-tuned
Peraltro è chiara la natura surrogatoria della “pop filosofia”, che in tal modo si assume il non facile compito di riproporre la filosofia nella forma dell’esposizione critica della società dello spettacolo: anziché intonare ancora una volta l’estetica di Hegel, Croce, Lukàcs o Gadamer, di fronte all’iperproduzione di nuovi significanti mediali, è chiaro che è necessario mettere in campo strumenti ermeneutici “light”, flessibili, accomodanti, sintonizzati sull’egoità dello spettatore, “I-tuned”. Ciò peraltro non significa disdegnarli o fare facile ironia su di essi, ma, al contrario, cercare di capire se tale strumentario di incursioni, ricerche, esercizi estremi e quant’altro è davvero adeguato a farci capire quell’universo composito cui si rivolge avidamente. Il rischio, infatti, è che questi lavori finiscano per essere una sorta di Entlastung gehleniana: che vengano usati cioè solo per sgravarci dal senso di colpa per aver pensato ai dilemmi morali guardando su un comodo divano il Dr. House anziché incurvati sui classici della filosofia, rimediando alla nostra accidia serale grazie al fatto che pur esistono i libri di filosofia su House. Come ha scritto A. Ferrari in relazione alla storia divulgativa via satellite, “History Channel nasconde un’insidia: lenisce il senso di colpa che sempre ci coglie quando ci abbandoniamo davanti alla tele. Sappiamo infatti che la sera, dopo cena, dovremmo leggere, suonare il violoncello, fare conversazione, invece di stramazzare davanti all’apparecchio e il fatto che sullo schermo passino le immagini del bombardamento di Dresda ci fa ritenere, a torto, migliori di chi egualmente stramazza, ma di fronte alla Carrà”.
12: Timpani
Così, almeno, la “pop filosofia” è un eccellente alibi per la nostra pigrizia: dal momento che il pensiero non fa più presa su un reale dal quale è stato sfrattato, esso si rifugia in ambiti infinitamente reinterpretabili, flessibilmente aperti, in cui l’argomentazione può concedersi pause immaginative, scarti, divagazioni, digressioni, invettive. Si realizza così quel programma di “timpaneggiamento” della filosofia teorizzato quasi quarant’anni or sono da Derrida in Marges – de la philosophie: “Se la filosofia ha sempre inteso, da parte sua, tenersi in rapporto con il non-filosofico, o addirittura con l’antifilosofico, con le pratiche e i saperi, empirici o no, che costituiscono il suo altro… si può, in tutto rigore, stabilire un luogo di esteriorità o di alterità da cui si possa ancora trattare della filosofia? …Dalla filosofia – prender distanza, per affermarne (décrire) e diffamarne (décrier) la legge, in direzione dell’esteriorità assoluta di un altro luogo”. Certo, la filosofia ha sempre avuto bisogno del non-filosofico, anzi spesso addirittura anche dell’antifilosofico, per poter confermare se stessa. Anche in ciò che la nega e forse la disprezza nel più profondo la filosofia riesce a trovare motivo di autoconvalida. E forse anche nella “pop filosofia” il discorso non investe in realtà le luccicanti piramidi mediali della società dello spettacolo che virtualizzano tutto, tutto riescono a rendere immagine-movimento: piuttosto, la filosofia fa di nuovo discorso di se stessa, rimette se stessa in scena. Parlando dell’altro essa parla ancora una volta di sé.
Riferimenti:
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