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Archive for the ‘Indizi sul corpo’ Category

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Bene e male …non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni che noi ci formiamo in conseguenza del nostro confrontare le cose le une con le altre” (Spinoza, Ethica 4, prefazione)

In quanto una cosa s’accorda con la nostra natura, in tanto essa è necessariamente buona(Spinoza, Ethica, 4.31)

Un’opposizione

Le cose sul piano ontologico sono tutte semplicemente quel che sono, secondo la legge dell’identità/opposizione universale del positivo e del negativo, identità/opposizione di cui ogni ente – da essa determinato e costituito – è una specificazione.

L’opposizione universale positivo/negativo si individua cioè quindi in innumerevoli modi (ognuno dei quali identifica enti specifici disposti in opposizioni specifiche).

Tra i modi possibili dell’opposizione vi è anche l’opposizione di valore: l’opposizione bene/male. In questa opposizione disposti e identificati quali suoi poli, i significati bene e male sono in tal modo i segnaposti grazie ai quali il discorso sull’etica può incardinarsi.

Ma nulla più che incardinarsi.

Etichette

Il significato-bene e il significato-male – se ci si limita a una considerazione limitata a un punto di vista astrattamente logico – sono infatti solo e semplicemente due poli di un’opposizione che, per quanto distinta da ogni altra polarità oppositiva, pone gli opposti solo quali astrazioni formali, vuote di contenuto. Puri segnaposto appunto, in un’opposizione anch’essa quindi puramente formale, anch’essa vuota di contenuto concreto e specifico.

Finché si resta sul piano astrattamente logico, l’opposizione di valore etico non può perciò che porre i due termini opposti (il bene e il male) che quali pure e semplici etichette, disponibili di per sé a essere apposte potenzialmente a una qualsiasi cosa.

Corpo dell’etica: l’autocoscienza

Affinché “bene” e “male” assumano il concreto senso etico che loro conviene non è cioè sufficiente concepirli semplicemente quali poli di un’opposizione logica.

Finché la polarità oppositiva bene/male resta unopposizione soltanto logica è infatti semplicemente un’opposizione tra tante, la cui forma e le cui dinamiche non si distinguono sostanzialmente da una qualsiasi altra struttura oppositiva puramente logica.

Affinché i significati di bene e di male prendano lo spicco e il senso concreto che loro conviene in quanto significati etici ci vuole altro oltre il loro essere semplici etichette segnaposto.

Ci vuole anzi più di qualcos’altro. Ci vuole innanzitutto infatti l’ apparire di un’autocoscienza, di un ambito entro il quale i significati appaiano e siano saputi tali. Un’autocoscienza che poi non si limiti semplicemente ad accogliere l’apparire dei significati in gioco, ma che sia soprattutto un disporli (il bene e il male) in una valutazione. Laddove per la valutazione occorre che i segni bene e male siano posti in una relazione con altro da essi, valutazione nella quale i segni in cui bene e male consistono sono attribuiti ad altri ulteriori enti-segni (che stanno per cose, fatti, eventi…). Occorre cioè vi siano, inoltre, altri enti-segni coi quali i segnaposto bene e male vanno messi in relazione.

Nella relazione così istituita, da tale autocoscienza, tra singoli enti e i significati di bene e di male, dato un ente qualsiasi “x”, una volta posto in relazione a “bene” (o “male”), esso è così valutato eticamente e, conseguentemente, in quanto così investito di significato etico, è disponibile perciò ad essere perseguito o rifiutato.

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(…)

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(…)

Questo ci tocca

Una volta allocato, l’ospite (la malattia, il male di vivere) attrae così l’attenzione su sé nella persistenza dei segni che invia. Nella malattia del corpo ponendomi all’erta inchiodato in essa e in circospezione su sue ulteriori presenze. Nel male di vivere immergendomi nella sua densità.

Tutto questo ha a che fare col senso.

Non solo per l’urgenza e la difficoltà di trovare in questa intrusione che emerge nel suo essere me, nel suo essere già da sempre me, un senso. Ma anche per il concentrarsi dei sensi tutti nella nuova presenza, che richiama a sé innanzitutto dove si duole.

Nella malattia – che sia lesione del corpo o male dell’anima – questo “ci tocca”.

Specchio dell’anima

Il corpo si espone in superfici, pelle a fior di pelle che partisce – in interfaccia o in distanze – gli spazi con gli altri corpi.

Nel corpo l‘anima (qualunque cosa essa sia, anche fosse solo “parola per dire qualcosa del corpo”) così si espone, apparendo, nel mondo e alle altre anime.

Qui stanno le rivelazioni, al di qua di impenetrabili interiorità o inesperibili ulteriorità.

In questo senso il corpo tutto è quindi un volto: il volto dell’anima. Voltato (in primis nel viso) innanzitutto verso l’esterno, il corpo è però voltato anche verso dentro. Qui attinge il dolore o il piacere, in vibrazioni e con-tatti. Qui, nel riverbero dell’incontro con altro, si svelano i cuori, nella protensione o intensione dell’emozione.

L’emozione perciò, nella sua protensione, traspare inevitabilmente nel volto rivolto all’esterno, ove l’ospite (la malattia, il male di vivere) non può non trapelare.

Perciò, se si sta male, è difficile non farlo vedere.

Nel volto è lo specchio dell’anima.

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images (2)Il compimento possibile

Nell’attesa sospesa in cui l’invocazione consiste, nella disponibilità all‘accoglimento del cenno dell’altro, desiderare non è solo pathos. Ma è anche attività. Già solo nel decifrare le tracce mandate dall’altro.

In questa attività, in questa dinamica, il compimento del desiderio è possibile. L’acme della meta raggiunta può essere toccata.

Se infatti l‘azione, volta in risposta al cenno dell’altro, trova risposta a sua volta da parte dell’altro cenni ulteriori provenienti dall’altro potranno ottenere decifrazione quali segni del desiderio che anima anche l’altro. Se poi l’altro (il desiderato) riconosce il desiderio che lo investe come desiderio e – quale sguardo a sua volta reciprocamente desiderante – così lo accoglie e ricambia, il desiderio può veder riconosciuto sé, raggiungendo in questo riconoscimento un compimento.

Il desiderare può così ottenere dall’altro il riconoscimento di sè e, per contraccolpo, la valorizzazione dell’essere a sua volta desiderato. In questa valorizzazione il desiderio vede riconosciuta e sancita così la sua natura, saturando e quindi ottenendo ciò che esso è (cioè il suo essere desiderio).

Per riconoscersi desideranti, ci si affida così (nel senso che ci si mette nelle mani altrui e nel senso che ci si fida) al riconoscimento altrui. Non potendo guardare lo sguardo che si è, l’unico esaudimento possibile del riconoscimento è, volgendosi all’altro, trovare uno sguardo ri-conoscente, rimandante l’esser sé della relazione in cui il desiderio consiste.

Nella possibilità che qui si apre, può essere anche che l’altro – avvolto a sua volta in una dinamica analoga – si esponga come a sua volta dischiudentesi anch’esso desiderante, a sua volta affidantesi.

Desiderante il me desiderante, può offrirsi all‘ottenimento cui il mio desiderio aspira.

Apertura della libertà

Esaudimento del desiderio sta quindi innanzitutto nella possibilità che l’altro rivolga a sua volta a me il suo desiderio, nel riconoscere il mio desiderio all’altro rivolto. In ciò è un compimento: mettere in pari i rispettivi desideri per quello che sono.

Per far ciò serve agire, alimentare relazione e avviare vicenda in specifica forma.

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L’assenza e la traccia. L’altrove presenza

Laddove vi è desiderio c’è – incisa in chi desidera – mancanza.

Vi ‘è inoltre assenza: quella dell’oggetto dal desiderio investito.

Ma se c’è assenza, dell’assente – l’oggetto del desiderio investito dall’intenzione in cui il desiderio consiste – deve esservi cenno, deve esservi traccia. Incisa in chi desidera è quindi una traccia che sancisce una mancanza, la mancanza che segna il soggetto del desiderio.

Senza di essi – il cenno, la traccia – non vi sarebbe nemmeno l’assenza. Ma la traccia accenna insieme anche a una presenza: la presenza dell’altro

Nella dinamica del desiderio non c’è dunque solo mancanza. Nella dinamica del desiderio deve essere inscritto anche qualcosa che c’è.

Deve essere infatti in gioco anche l’energia senza cui il desiderio si spegne. Ma non solo: l’energia, se c’è desiderio, deve essere inoltre alimentata orientata da qualcosa di altro ancora che a sua volta c’è: la traccia. La traccia che è rinvio, a sua volta, a qualcosa di altro ulteriore ancora, che anch’esso pure c’è: altra altrove presenza, che fa cenno di sé da altro luogo, altro da me.

Nelle mani dell’altro

Finché si desidera anche l’appagamento è assente. E’ altrove, non è qui ora. E’ sempre più in là: da venire.

Ma l’appagamento anelato – costitutivamente assente nel desiderio finché è desiderio – è agognato solo in quanto è in vista. Solo in quanto intravisto quale qualcosa che è stato, potrebbe essere, potrà essere presente si può fare desiderare.

Se è vero che l’oggetto del desiderio non può non essere pensato che altrove, tuttavia deve essere tale che da lì, là dove è in qualche modo esistente, ci dà sua notizia e ci lancia il suo cenno.

Perciò il desiderato non è solo un mio fantasma. Non è riducibile a allucinazione di un mio delirio. Non è mai solo mia rappresentazione.

E’ perciò che in qualche modo si fa desiderare di suo. Ha entità e una forza attrattiva sua propria.

E’ perciò che nel desiderio c’è arrischio, e non poco: la traccia dell’altro mi mette anche sempre nelle mani dell’altro, nelle mani di un altro.

L’inesaudibile

Nella misura in cui l’oggetto del desiderio è dunque di suo quella tal forma che di suo ci fa cenno e in quanto è quindi e resta sempre un autonomo altro, può perciò anche sempre sottrarsi.

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(…)

Conoscere sé per mezzo dell’altro

Amavo Socrate nella convinzione che toccasse a me – se mi concedevo a Socrate – di ascoltare proprio tutto quello che costui sapeva”

(“Simposio”, discorso di Alcibiade)

Nella vicenda amorosa, alimentata dal desiderio e sostenuta da indizi di una promessa possibile, l’amante vuole dunque avere accesso alla trasparenza di tutto l’amato. E questo accesso lo vuole (r)assicurato, ancorato a un “per sempre”.

A tal fine l’amante interpella, parla, chiede, progetta, escogita, pensa. Si arrovella perciò nel tentativo di indirizzare il discorso, lo propone, cerca così di intessere dialogo e di alimentare in tal modo una storia. Ma, nonostante tutte le intenzioni e accortezze, il discorso d’amore può essere governato e dominato solo in piccola parte.

L’amante vorrebbe infatti svelare l’amato in trasparenza assoluta, catturarne il segreto, ma l’amato – finché è desiderato – sfugge alla presa. Si desidera infatti solo quanto non si possiede e l’amato desiderato resta – finché il desiderio lo agogna – in quanto tale non colto nel suo prezioso segreto. Questo segreto alimenta la vicenda d’amore, per cui le parole (e quindi i significati delle singole azioni) nella trama del discorso e della storia d’amore non possono avere mai chiaro e univoco senso, ma possono solo alludere a quanto significano. In gran parte dunque anche sviano e nascondono.

Perciò nella vicenda e nel discorso d’amore nessuno governa la cosa, men che meno l’amante. Quanto accade è quindi sempre anche altro da quanto è ordito. Le parole e le azioni innescano cioè sempre anche altro da quanto, peraltro confusamente, è auspicato. Di questo altro il discorso e la vicenda amorosa sono la cifra, che non scioglie l’enigma.

L’amante è cioè dominato da una potenza, che lo attrae e che egli attribuisce all’amato. Perciò vuole conoscere dell’amato tutto: perché vuole sapere della figura e del segreto di questa potenza – in quel tutto intravista – che così tanto lo attrae. Ma, nel perseguire questo intento, non ha in realtà mai esperienza di tale potenza, che ritiene essere altra da sé. Quel che davvero l’amante esperisce, quel che gli accade davvero è invece inevitabilmente esperire (e quindi in qualche modo conoscere) innanzitutto una parte di sé: quella parte che, essa potenza, a contatto con la supposta potenza dell’altro, si accende e si espande.

L’interesse, colmo di desiderio, è guidato quindi, in tal modo, sì dalla ricerca dell’identità dell’amato. Ma questa ricerca è piuttosto occasione e pretesto per percorrere in realtà altra via, nella quale la vera posta in gioco del desiderio attivato si mostra. L’unica via percorribile, l’unica che dunque per davvero sia in gioco, è infatti quella che porta a conoscere quella specifica parte di sé che è attratta e potenziata dalla specifica forma di potenza nell’amato intravista.

Nel conoscere e accedere a tale potenza il rapporto d’amore si svela essere in realtà mezzo per conoscere . (altro…)

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Dicono

che il primo amore sia il più importante.

Ciò è molto romantico

ma non è il mio caso.

Qualcosa tra noi c’è stato e non c’è stato,

è accaduto e si è perduto.

Non mi tremano le mani

quando mi imbatto in piccoli ricordi

e in un rotolo di lettere legate con lo spago

nemmeno con un nastrino.

Il nostro unico incontro dopo anni,

la conversazione di due sedie

intorno a un freddo tavolino.

Altri amori

ancora respirano profondamente in me.

A questo manca il fiato per sospirare.

Eppure proprio così com’è,

è capace di ciò di cui quelli

non sono ancora capaci:

non ricordato,

neppure sognato,

mi familiarizza con la morte.

(Wislawa Szymborska)

***

L’affettività in cui, anche, consistiamo alimenta ogni nostra ricerca, ogni nostra relazione, ogni nostra dinamica. Le sue forme e sfumature sono molteplici. Ma tutte sono calibrate intorno a una figura che in qualche modo le alimenta tutte, dando quella misura il cui plesso semantico i Greci hanno nominato Philìa, o Eros.

Anche la filo-sofia, in quanto philìa, trova misura nella tensione in cui questa forma affettiva consiste e perciò filosofia è sempre in qualche modo pratica e discorso amoroso. Talvolta può essere esplicitamente anche discorso su amore. Platone su questo ci è antico maestro, ma anche altri e altri – non solo Platone – si sono arrischiati nel dire su Amore. Sentieri sono stati così da discorsi percorsi, un mappa del dire d’amore è stata in tal modo tracciata.

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Sul tema molto da dire hanno però anche i poeti. Wislawa Szymborska ad esempio,  nei versi cui sopra, nel suo rammentarci il legame tra l’amore e la perdita (dunque tra l’amore e la morte). Ma anche altri e altri meritano attenzione ed ascolto, e non solo poeti: tutti coloro che hanno disposto in parola quanto è traccia del desiderio che alimenta la vita ed è richiamo ad aprire l’orizzonte cui Amore ci avvia.

Frammenti

Pensando mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi mi sono moltiplicato.

(Fernando Pessoa)

Il discorso su amore non può perciò, anche date le più disparate fonti da cui è stato alimentato e intessuto, che dispiegarsi polivoco, articolarsi in frammenti (in un gioco che consente il rifrangersi di echi ed abissi).

Corrispondendo alla natura di Amore, in cui il senso lampeggia intenso e profondo ma a sprazzi e spezzato e non certo articolato in un discorso disteso secondo pura ragione, già Platone di questo è del tutto avveduto: nel Simposio perciò quando Diotima tratteggia la figura di Eros lo presenta a pennellate incisive e secondo diversi lati prospettici ognuno perfettamente calzante, ma anche ciascuno a sé stante nonché per sé insufficiente a esaurirne figura.

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Qual è il tuo scopo nella filosofia? Mostrare alla mosca la via d’uscita dalla sua trappola.”

Con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio”

(Ludwig Wittgenstein)

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“Queste foglie che appaiono dietro il vetro della finestra sono in relazione a ogni altro essente e quindi esse, come tali, includono in sè, in un modo specifico, ogni altro essente:… lo includono… come altro, e di esso includono un aspetto finito: sì che in queste foglie sono inclusi …. il cielo e il sole e le più lontane galassie e quelle che la volontà interpretante pone come le opere dei mortali sulla terra e i loro pensieri e impulsi più reconditi: ed è dunque inclusa la totalità dei contenuti degli altri cerchi dell’apparire. E tutto questo è incluso… anche nel rumore della pioggia, nel ricordo del bel tempo di ieri e innanzitutto nella totalità degli essenti che appare nel cerchio orginario dell’apparire e che è l’ambito a cui appartengono queste foglie, il rumore della pioggia, il ricordo del bel tempo di ieri e ogni altro essente che appare. E tutti gli essenti sono inclusi in modo diverso nelle foglie, nel rumore della pioggia, nel ricordo…”

(Emanuele Severino “La Gloria pp.222-223)

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“Nell’apparire della parte più irrilevante del Tutto appare l’infinità delle tracce di ogni altro essente. Che non ci si accorga di questa infinita ricchezza è un limite dei criteri secondo cui si costituisce l’accorgersi”

(Emanuele Severino “La Gloria p.224)

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Tracciamenti intrecciati: assenze

Ogni ente (ogni vibrazione, ogni solidificazione, ogni fluire, ogni cosa dalla più imponente alla più impercettibile; quindi anche io, anche te) è insieme ad ogni altra cosa. Qualunque sia il contesto in cui tale insieme consiste, ogni ente è, in tale contesto, in relazione ad ogni altro (e al tutto).

In questa relazione ogni ente lascia, in ogni altro, traccia, la sua specifica traccia.

La traccia è la presenza dell’altro – di cui è traccia – in ciò che dalla traccia è in tal modo inciso e segnato. Il segno dell’altro (di ogni altro) più o meno profondamente è quindi in me (così come è in te).

La traccia è quindi presente là dove incide, là dove è accolta; ma l’altro, presente in traccia, non è però presente (non è là dove la traccia incide, non è là dove la traccia è accolta) nella sua concretezza. Questa concretezza, l’intimo essere sè dell’altro, nella traccia è sì indicata, ma – tale concretezza – è, in ciò che accoglie la traccia, assente.

Nella traccia, cioè, l’altro è presente, ma ne è presente l’assenza.

Attraverso le tracce, ogni cosa è così in relazione a ogni altra, ma in quanto non è l’altra. Questo non esserlo è la sua traccia, la presenza della sua assenza.

Pulsanti contesti

Tutto il pullulare, il brulicare, il pulsare – in ritmi e stasi, e strati sovrapposti e interferenti – in cui il tutto consiste, tutto questo lascia traccia. Lascia così ogni cosa traccia in ogni altra cosa, in ogni sia pur minima cosa. Dappertutto, infinite tracce disseminate nel tutto

Perciò ogni cosa lascia traccia anche in me. Così come la lascia in te.

Io, tu, le infinite tracce presenti in noi. Tracce di cui non siamo mai la semplice somma, ma di cui siamo, ognuno e ciascuno, contesto specifico, unico irripetibile.

Noi; il contesto delle relazioni che in noi lasciano traccia.

Noi: il contesto, che a nostra volta ovunque lasciamo, in altri contesti, la nostra traccia.

Incontri

In me dunque tu, nell’incontro (o nel non incontro), lasci tua traccia.

Nella relazione tra me e te la tua traccia è presenza in me di un tuo aspetto.

È questo aspetto la traccia: la presenza (in gesto, in volto, in lato prospettico) della relazione tra me e la tua assenza (se tu fossi nella tua concretezza in presenza in me, non saresti più l’altro, non saresti tu, ma solo null’altro che qualcosa di me).

Nell’incontro, presente è la traccia. Nell’incontro si disseminano le tracce reciproche di ciò che nell’incontro si accosta

In me presente è perciò la tua traccia, in cui tu eccedi, assente nella intima concretezza in cui consisti, tutte le tracce infinite che ovunque rilasci,

In me è questa tua infinita assenza (il tuo non essere me, la tua differenza). In te io pure lascio traccia: la mia infinita in te presente assenza (nella quale presente, in traccia, è la tua assenza).

Nella traccia si dà perciò la differenza: l’interfaccia del nostro legame in cui uno non è l’altro, cioè è differente dall’altro, nella separazione in cui siamo insieme (nel contesto).

Enigmi e problemi

Ma le tracce sono enigmatiche.

Indecifrate: perciò sono ambigue.

Indecifrate, esse sono problema.

Nell’enigma ogni traccia è infatti disponibile all’interpretazione. Può essere traccia di questo ma anche di altro, in nesso con questo ma anche con altro. Nell’intreccio complesso in cui la vita consiste, questa oscillazione del significato è, ontologicamente e esistenzialmente, il problematico.

Nel problema, che in tal modo si staglia, è una strozzatura, un sostare dell’inquietudine che si sospende in ingorgo.

Lo sblocco, la direzione (la soluzione) sono assenti. Presenti in assenza di essi vi è traccia. Ma nulla più che una traccia.

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Se gli umani nascessero liberi non si formerebbero – finché fossero liberi – alcun concetto di bene e di male

(Spinoza, Ethica 4.68)

***

Nel mondo in cui siamo, per come ci appare entro l’interpretazione in cui consistiamo, siamo attorniati da cose. In questo mondo accadono eventi che reputiamo essere bene o essere male. Ma – per come intendiamo essere le cose in sè – non attribuiamo loro – alle cose – la responsabilità del bene o del male.  Non è, ad esempio, merito o colpa del sole splendere o non splendere nel cielo; l’uragano in sé non è cattivo ma è ciò che è; la pietra che cade facendo danno lo fa per gravità e non per sua perfidia…

Ciò che non è pensante non è – così pensiamo – imputabile del bene e del male. Non avendo coscienza della sua coscienza (e quindi del suo agire) infatti la cosa non pensante non sa. Nemmeno sa perciò di bene o di male. Materia, pietre e piante, ma anche animali e macchine (nella misura in cui pensiamo non abbiano coscienza di sé e di ciò che fanno) non sono, in sé, né buoni né cattivi (se non metaforicamente, o per nostri propri giochi psichici proiettanti su altro quanto invece ci pertiene). Bene e male appaiono solo nelle autocoscienze, solo entro uno sguardo che li individui o ponga soppesandoli. Solo una coscienza che sappia e possa dire “io” sa (e quindi fa) del bene o del male.

E’ nell’apparire in cui il pensiero autocosciente consiste che si dispongono infatti segni, ossia significati e tra questi il significato “bene” e il significato “male” sono segni-valore. Segni che cioè si stagliano e ergono emergendo da uno sfondo-contesto e prendendo, su un corrispondente disvalore, lo spicco che gli compete secondo polarità oppositiva. Posto e esposto nel suo essere identico a sé, e perciò opposto al suo proprio altro, il segno-valore configura in tal modo il necessario rimando dell’un polo all’altro (quali opposti che si negano l’un l’altro). Per concepire il bene si deve dunque concepire il male, e viceversa. Non si danno perciò bene o male in sè quali determinazioni isolate, ma solo quali implicantesi l’una con l’altra. 

La polarità in cui l’opposizione bene/male consiste non è però immediatamente posta.

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Il mondo è corpo.
Corpo esteso nell’apertura dello sguardo in cui l’apparire si mostra e dispone.

Mondo è quindi il concepibile in quanto spazio, nel suo essere consistenza, nel suo prendere corpo.

***

Nel mondo, noi siamo corpo.

Non certo il corpo inerte cadavere descritto dal sapere anatomico: quel corpo è soltanto un pezzo di mondo. Nemmeno siamo il corpo macchina, descritto dal sapere fisiologico: quel corpo è un costrutto teorico; per quanto correlativo al corpo vissuto ne è solo ana-logia.

Noi siamo corpo nel senso che siamo corpo vissuto: corpo estensione (nel suo essere laddove mi alloco, da cui mai mi disloco ovunque io sia oppure io vada), corpo proprio quale oscura ombra in cui innanzitutto consisto e pulso, apertura di spazio (il mio spazio) che batte incessante in sé stesso i ritmi del tempo (il mio tempo).

Noi siamo corpo, ossia corpo vissuto: corpo senziente dolente o gaudente. Corpo pensante (e per questo pensato)

***

Anche ciò che è altro da noi (noi corpi vissuti, noi i viventi) è corpo: si estende là fuori, occupando il suo posto nel mondo. Ma chiuso e sigillato nel suo in sè segreto.

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Lo scambio simbolico

Nelle società arcaiche – questo secondo molti studi, in primis il Saggio sul dono di Marcel Mauss, emergerebbe dai dati antropologici – la forma originaria della relazione sociale sarebbe lo scambio simbolico in cui il dono consiste.

Sarebbe cioè il dono, ossia il dare senza contraccambio, ciò che istituirebbe originariamente i rapporti sociali. Su di esso – prima che su qualsiasi altra forma di scambio – si innesterebbe cioè il legame sociale. Non l’utile, non il baratto né lo scambio di merci o di moneta, non la ratio calcolante, non il do ut des fonderebbero e reggerebbero dunque le società originarie, quanto piuttosto il gesto, in fondo uno sperpero, del dare in un gesto simbolico, senza contropartita apparente e immediata, in cui il donare consiste.  

Donata – questo attesta l’osservazione dei comportamenti in alcune società primitive – spesso è un’eccedenza, magari dissipata nella festa o nella sfida simbolica dei potlach, tesi a esibire potenza e magnificenza del donatore, descritti da Boas. Ma donato può essere peraltro anche quanto sarebbe al donatore utile o magari indispensabile. In entrambi i casi il senso del gesto è che, senza esplicita richiesta o garanzia di contraccambio men che meno di contraccambio immediato, chi dona depone le lance e si espone cedendo qualcosa di suo o di sé nella perdita di quanto è sua forza o quanto potrebbe dargli forza. Indebolendosi dunque e rafforzando, nel consumo o nell’acquisizione, chi il dono riceve, il donatore si rende apparentemente più inerme, mentre ll destinatario del dono è valorizzato riconosciuto degno del dono ed è rafforzato da quanto riceve.

Ma il destinatario del dono non è solo fruitore avvantaggiato del gesto, men che meno passivo fruitore. Nel gesto è coinvolto e anch’egli è in gioco, preso nella rete che, col dono, anche su di lui si tesse. Il donare non è cioè mai un puro e semplice dare: è, per quanto apparentemente unilaterale, in realtà una forma di scambio. Il fruitore deve infatti, anch’egli deposte le lance, per lo meno riconoscere il gesto del dono e, in risposta, il dono deve mostrare accettarlo. Già nel cenno di accettazione si avvia l’intreccio di una relazione. Nel cenno può venire il ringraziamento. Può venire l’esigenza di un successivo ulteriore dono di contraccambio.

Nel donare è cioè proposto un vincolo. Nell’accettazione del dono questo vincolo è stretto nel suo nodo. Da qui si diparte e si sviluppa vicenda.

Il potere inerme del donatore, che in ogni donare si esprime, apre così una convivialità. E la probabilità di una restituzione, di un contraccambio. Cui seguiranno perciò altri doni, vicende, altre relazioni sociali.

Nell’età della merce, l’arcano del dono

La pratica sociale del dono è dunque arcaica, radicata nelle pratiche umane istitutive della relazione sociale.

Anche oggi, per quanto edulcorata e subordinata alla forma imperante della merce, è più e altro che una semplice consuetudine o un modo di esprimere gli uni verso gli altri buoni sentimenti. Non è solo (anche se è pure) semplice prassi sociale attinente agli usi (dei doni per le occasioni e le feste) e la generosità individuale. Non è solo modo per dare per qualche motivo a qualcuno la piacevole sensazione del ricevere un dono portando l’attenzione su sé di chi il dono lo fa. Ne è prova il fatto che anche nel più ovvio prevedibile e banale dei doni entrano in campo sentimenti complessi, quasi mai riducibili solo a generosità e gratitudine.

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