Sono ormai sei anni che l’Europa, e l’Italia in particolare, stanno attraversando (come se fosse un tunnel o un mare in tempesta) una crisi economica tutt’altro che congiunturale. Politici ed economisti si avvicendano al capezzale del malato per fare diagnosi, recitando ai microfoni mantra apotropaici quali “meno rigore, più crescita”, “jobs act” o “spending rewiew”. In questa stucchevole routine quotidiana qualcosa spicca per la sua assenza: dove sono finite tutte quelle dotte analisi dei limiti dello sviluppo, con il corollario di appelli alla salvaguardia dell’ambiente (Al Gore: chi era costui?) e di esortazioni alla decrescita? Gli stessi (io stesso!) che ancora sei anni fa accoglievamo i dati ISTAT sul PIL in crescita con la denuncia della follia capitalistica, oggi tremiamo di fronte agli indicatori che impietosamente certificano la recessione e pronosticano disoccupazione, povertà, emigrazione.
Ma come? Non dovremmo essere contenti? Finalmente abbiamo fermato il folle volo: ora possiamo sederci e riflettere, e magari cominciare a segare qualche sbarra a ‘sta maledetta gabbia d’acciaio del capitalismo. E invece no, tutti ammutoliti. D’accordo, è comprensibile che – anche grazie alla forte spinta mediatica – ci si stia facendo travolgere dalla emotività collettiva, mentre dovremmo solo cercare di mantenere la calma: mica possono essere contingenze storiche tutt’altro che imprevedibili a mettere in crisi un impianto teorico consolidato come quello della ‘decrescita felice’ (Serge Latouche) o scelte etiche meditate come quelle dell’ambientalismo!
Orsù, ripassiamo a memoria quanto ci siamo ripetuti per decenni e lasciamo che altri soccombano a tali irrazionali paure: Suave – direbbe quel ‘porco’ di Lucrezio – mari magno turbantibus aequora ventis /e terra magnum alterius spectare laborem. Tradotto: noi che abbiamo capito di quale droga la gente stia ora soffrendo l’astinenza, possiamo ben concederci questa Schadenfreude, ché poi magari proprio questa sofferenza aiuterà anche loro a capire …
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Eppure l’evento ‘crisi’e l’emotività che esso scatena in noi possono essere occasione per riconsiderare, ad esempio, uno dei topoi più frequentati della critica ‘antisistema’: il Prodotto Interno Lordo. Il PIL – si dice – è un indicatore parziale, anzi rozzo, anzi fuorviante e deleterio; è la somma di tutti i valori monetari scambiati sul mercato, indifferente a ciò che con essi si acquista, cose ‘buone’ (cibo, vacanze, libri) e cose ‘cattive’ (psicofarmaci, armi, casse da morto); ristagna se nessuno fa incidenti o si ammala; cresce enormemente se una certa zona è colpita da un violento terremoto, se scoppia una guerra, se la gente è stressata o depressa e compera vagonate di psicofarmaci; la monolatria del PIL, che esige le sue vittime quotidiane, legittima poi scelte politiche che producono infelicità a tutti i livelli. Da più parti e da tempo si propone di sostituire il PIL con altri indicatori (HDI, ISH, SMEW; per approfondire: Jean Gadrey, Florence Jany-Catrice, No PIL! Contro la dittatura della ricchezza, Castelvecchi, 2005) che integrino nella cifra finale anche fattori quali l’istruzione, le buone relazioni sociali, il rispetto dell’ambiente etc., in modo che l’opinione pubblica e poi i politici possano orientare le loro scelte in vista di una più autentica felicità dei popoli.
Qualcosa però non quadra: tutti sembrano concordare sul truismo che il denaro non fa la felicità (compresi gli economisti che definiscono la propria disciplina una “scienza triste”), ma poi, da sempre, non si riesce a trovare l’accordo su che cosa effettivamente la realizzerebbe, cosicché – cinicamente – si finisce per ironizzare: “Se il denaro non fa la felicità, figuriamoci la povertà!”.
Per uscire dall’impasse possiamo affidarci a Kant e cercare anzitutto di chiarire il concetto di felicità e quello dell’esser degni di essa come sua inaggirabile precondizione; emergeranno così inattese (?) analogie tra denaro, lavoro e pensiero ed un rafforzato sospetto (sempre kantianamente fondato) che dietro il pensiero unico capitalista ci sia davvero l’inconfutabilità dell’autocoscienza; e che la storia umana, se non finita, nella sua direzione sia ormai definitivamente segnata.
Felicità e dignità
Nella Critica della ragion pratica Kant spiega che la felicità consiste semplicemente nella realizzazione dei nostri desideri, ma che non potremo mai essere felici se prima non decidiamo, al di là di tutte le cose che ci capita di desiderare, che cosa dobbiamo desiderare. Ad esempio, un conto è l’incapricciarsi momentaneo per un gelato, un altro è la scelta di dimagrire per cui accetto di piegarmi ad una dieta a lungo termine. Se ragiono un attimo, capisco subito che la felicità che mi procura il gelato è effimera ed incomparabile rispetto alla soddisfazione di aver perso qualche kilo di troppo (“Nothing tastes as good as skinny feels”, sembra aver detto un giorno Kate Moss). Ma – di nuovo – siamo sicuri che la silhouette che desidero è davvero il bene supremo cui subordinare tutti gli altri desideri? E’ la ragione che ci impone questo dubbio e ci incita a trovare la ‘massima’, il principio guida supremo della nostra vita, ciò che davvero sentiamo di dover desiderare. Kant chiama volontà il desiderio ‘doveroso”, spiegando che, solo allorché le nostre scelte saranno effettivamente volute, saranno anche libere e non semplicemente ‘patologiche’, cioè frutto delle inclinazioni prodottesi in noi dalla contingenza di esperienze che non dipendono da noi. (Ad esempio, è davvero espressione di libertà l’ascetismo delle top model? da quali esperienze sarà stata condizionata Moss per fare della bellezza fisica il suo ‘spirito guida’?).
Come sappiamo, il criterio per giudicare se un desiderio è anche vera espressione di volontà, così che realizzandolo io possa raggiungere il sommo bene, ossia la felicità, è il famoso imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre anche valere come principio di una legislazione universale”. Il paradosso è che una volta chiarito tale criterio, una volta assolta tale condizione preliminare per la felicità, questa risulta infinitamente più lontana di quanto non apparisse prima. Se ho potuto credere che dimagrire o prendere la donna o la roba degli altri potesse darmi la felicità, è perché non sapevo ancora che cosa dovessi desiderare. Ma nemmeno adesso so che cosa concretamente desiderare: so solo come devo desiderare e so, in base a ciò, che tutto ciò che mi capita di desiderare, ogni oggetto (contenuto) del mio desiderare, nella misura in cui mi determina a desiderarlo, annulla la doverosità del desiderio stesso e con essa la volontà e la felicità. Gira e rigira, Kant si ritrova a braccetto con Socrate: come il vertice della sapienza umana individuato con la prima Critica è la “soppressione [Aufhebung] del sapere” (Critica della ragion pura, B XXX), corrispondente al socratico sapere di non sapere, così il vertice della virtù è il voler non volere-alcunché-di-determinato, corrispondente alla voce che sempre dissuade Socrate da ciò che sta per fare e che mai lo persuade a nulla (si veda l’Apologia di Socrate). Alla sapienza come docta ignorantia si aggiunge il malinconico corollario che non è in mio potere realizzare la felicità: la volontà libera si realizza paradossalmente … nella noluntas!
Kant semplice precursore di Schopenhauer? No! Decisiva in Kant resta la rivendicazione orgogliosa del virtuoso, consapevole che, seppur non è felice, è però degno della felicità ed in tale dignità trova il sublime, quel sentimento che ci innalza al di sopra di ogni sentimento. In un breve e significativo testo del 1784, Idea per una storia universale in un intento cosmopolitico [qui nella traduzione di Maria Chiara Pievatolo reperibile in Rete], Kant parte dal presupposto della naturale dotazione razionale (ciò che altrove egli chiama il “fatto della ragione”) e interpreta sia l’indigenza materiale che la ‘insocievole socievolezza’ degli uomini nello stato di natura non come un errore epimeteico, ma come una vera e propria provvidenza:
La natura ha voluto che l’uomo traesse interamente da se stesso tutto ciò che oltrepassa l’ordinamento meccanico della sua esistenza animale e che non divenisse partecipe di nessun’altra felicità o perfezione tranne quella che si fosse procurato da sé, libero dall’istinto, tramite la propria ragione. La natura, cioè, non fa niente di superfluo e non è prodiga nell’uso dei mezzi per i suoi scopi. L’aver dato all’essere umano la ragione e la libertà del volere che si fonda su questa era già un segnale chiaro del suo intento riguardo al suo apparato. Egli, infatti, non doveva essere condotto dall’istinto o sostentato e informato con una conoscenza innata; doveva piuttosto trar tutto da se stesso. L’invenzione dei suoi mezzi di nutrimento, del suo vestiario, della sua sicurezza e difesa esterna (per la quale non gli ha dato né le corna del toro, né gli artigli del leone, né la dentatura del cane, ma solo le mani), ogni delizia che possa rendere la vita piacevole, anche il suo discernimento e prudenza e perfino la bontà del suo volere dovevano essere interamente opera sua. Sembra, qui, che la natura si sia compiaciuta della sua massima parsimonia e abbia commisurato il suo apparato animale in modo così sobrio, così preciso per il bisogno supremo di una esistenza primitiva, come se avesse voluto che l’essere umano, se un giorno si fosse elevato dalla massima rozzezza alla più grande abilità, alla perfezione interiore del modo di pensare e quindi alla felicità (quanto è possibile sulla terra), dovesse averne interamente il merito ed essere grato solo a se stesso; come se avesse mirato di più alla sua stima di sé razionale che al suo benessere. Infatti in questo corso delle vicende umane c’è una intera schiera di fatiche che attende gli uomini. Sembra però che alla natura non sia importato affatto che egli vivesse bene, bensì che progredisse tanto da rendersi degno della vita e del benessere col suo comportamento.
Nella dignità morale, direbbe Lacan, seppure non c’è plaisir, c’è però jouissance; se non soddisfiamo la libido, esprimiamo però la nostra ‘pulsione di morte’, quel thymos che ci spinge a rischiare tutto per l’onore, e che ci impedisce propter vitam vivendi perdere causas, come dice Giovenale in versi più volte citati da Kant.
In questa prospettiva è dunque chiaro che qualsiasi indicatore sociometrico si adotti per misurare la felicità di una popolazione, risulterà una mera approssimazione frutto di una macedonia dei desideri più diffusi. Esso non renderà giustizia della volontà e, se adottato come guida per le politiche economiche dei governi, darà vita – ben che vada – solo all’ennesimo apparato welfaristico, all’ennesimo dispositivo panem et circenses con cui da sempre si frena la soggettività delle masse.
“Beh – si dirà -, se nessun indice di sviluppo umano potrà mai dirci nulla della vera felicità, figuriamoci il PIL!” E invece credo che questo termometro della febbre capitalistica non sia meno adatto a misurare la felicità complessiva di quanto lo sia qualsiasi altro indicatore: solo il solito inveterato moralismo potrebbe indurci ad esecrare le esternalità negative del commercio delle armi e a minimizzare quelle delle ‘buone vecchie’ relazioni di vicinato o della stabilità familiare. Se nessuno può più nascondersi che arricchendosi con la vendita delle armi si rende oggettivamente corresponsabile dello scatenarsi della violenza, nessuno più dovrebbe ormai credere ciecamente che la stabilità (e felicità) delle relazioni complementari umane (familiari, gruppali, sociali e politiche) sia indice della loro dignità morale e scevra dalla violenza.
Ma c’è un motivo in più per non denigrare troppo il PIL: a differenza di tutti gli altri indicatori, il tasso di crescita del PIL ha tutte le carte in regola per candidarsi ad essere l’unica misura di quanto una popolazione nel suo complesso sia, se non felice, quantomeno degna della felicità. PIL, in effetti, come tipica espressione dell’economia politica classica, non misura propriamente la ricchezza, ma il prodotto, ossia il risultato di una attività, il lavoro, con cui si crea valore – letteralmente – dal nulla, anzi da quel ‘meno che nulla’ (S. Žižek) che è la soggettività trascendentale. Se un tempo il calvinista voleva credere che il suo successo professionale fosse segno della propria predestinazione alla salvezza, oggi laicamente dovremmo riconoscere che il tasso di crescita della somma delle mie entrate e delle mie uscite è l’unica misura tangibile di quanto io riesca a rendermi indipendente dai condizionamenti e sia perciò capace di quel voler non volere che mi rende degno della felicità. Si intende che sia le entrate che le uscite crescono se lavoro e che il lavoro cresce se le uscite sono investimenti produttivi, ‘in conto capitale’ (non certo se sono consumi voluttuari), in un circolo di autoamplificazione il cui ‘motore immobile’ è il sacrificio di sé, mio e di chi acquista i miei prodotti.
– 1. continua –
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