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Archive for the ‘Teoria Critica’ Category

Auto-narrazione e epilogo

L’annunciata o proclamata morte della filosofia, le varie ipotizzate forme del suo oltrepassamento, il tramonto della metafisica e dei suoi immutabili, la marginalità socio-politica dell’etica e dei saperi filosofici: tutto ciò è contemporaneità.

Di ciò per lo più la filosofia è del tutto consapevole, tutto ciò spesso lo tematizza esplicitamente. In questa riflessione sulla sua possibile fine, la filosofia delinea insieme la vicenda che si va, forse, a concludere, cioè l’auto-narrazione della tradizione in cui essa consiste.

In tal modo, nel pensare sulla sua fine, ipotizza anche un inizio (per lo più in un certo luogo, la Grecia, e un certo momento, il VI secolo a.C.) per cui la fine non è che l’epilogo della vicenda che dalla radice greca dispiega l’Occidente per poi concludersi nel mondo (della tecnica) contemporaneo.

L’incontrovertibile

La filosofia, nel ritenere possibile la sua fine, si pensa quindi come una vicenda storica. Ma non come uno qualsiasi tra i tanti saperi sorti nel corso della storia umana via via escogitati dall’uomo per potere abitare il mondo.

Essa si reputa infatti sguardo volto all’intero, al tutto (all’essere): a ciò dunque oltre cui v’è nulla, che perciò da nulla potrà mai essere confutato. Si pensa quindi come il dire l’assolutamente vero, come sguardo in cui la verità si mostra. Unico e solo sapere incontrovertibile.

Ciò ha del paradossale: il sapere rivolto alla verità, che intende essere l’assolutamente stante, irrefutabile nella sua evidenza, si pensa anche come una vicenda storica, quindi contingente.

Avvicinarsi al vero

Ma paradossale è l’intenzione stessa del filosofare.

Il dire, in cui la filosofia consiste, è infatti una parte del tutto: lo sguardo che intenziona il Tutto. Ma la parte non può che rispecchiare il Tutto in parte, ossia astrattamente, nella contraddizione per cui il Tutto appare sì, ma non tutto, non concretamente. La parte in cui consiste lo sguardo filosofico inoltre, non potendo mai vedere il punto cieco in cui consiste il sè che guarda, mai potrà vedere tutto.

La filosofia perciò tende a qualcosa (la verità sul tutto) che mai potrà raggiungere (se non astrattamente, se non prospetticamente). Perciò della verità non può che essere ricerca, al più storico asintotico accostamento al vero.

Dubbio ed enigma

Tendendo all’intero, la filosofia non concede inoltre presupposti.

Perciò li mette in dubbio tutti (lo scetticismo le è essenziale). E il suo paradossale dire in una parte il Tutto la spinge a focalizzare ciò contro cui il dire cozza: i limiti, i nodi aporetici, le pieghe, i margini del reale e il dire.

Qui il pensiero incontra i problemi, le situazioni- limite, le tautologie e le contraddizioni che anche lo innervano.

Qui anche è la filosofia: là dove l’enigma si staglia.

Il filosofo ad esso si accosta, vi si accasa. Talvolta lo scioglie, ma solo per ritrovarne un altro, un poco oltre.

Le altre vie

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Lo scambio simbolico

Nelle società arcaiche – questo secondo molti studi, in primis il Saggio sul dono di Marcel Mauss, emergerebbe dai dati antropologici – la forma originaria della relazione sociale sarebbe lo scambio simbolico in cui il dono consiste.

Sarebbe cioè il dono, ossia il dare senza contraccambio, ciò che istituirebbe originariamente i rapporti sociali. Su di esso – prima che su qualsiasi altra forma di scambio – si innesterebbe cioè il legame sociale. Non l’utile, non il baratto né lo scambio di merci o di moneta, non la ratio calcolante, non il do ut des fonderebbero e reggerebbero dunque le società originarie, quanto piuttosto il gesto, in fondo uno sperpero, del dare in un gesto simbolico, senza contropartita apparente e immediata, in cui il donare consiste.  

Donata – questo attesta l’osservazione dei comportamenti in alcune società primitive – spesso è un’eccedenza, magari dissipata nella festa o nella sfida simbolica dei potlach, tesi a esibire potenza e magnificenza del donatore, descritti da Boas. Ma donato può essere peraltro anche quanto sarebbe al donatore utile o magari indispensabile. In entrambi i casi il senso del gesto è che, senza esplicita richiesta o garanzia di contraccambio men che meno di contraccambio immediato, chi dona depone le lance e si espone cedendo qualcosa di suo o di sé nella perdita di quanto è sua forza o quanto potrebbe dargli forza. Indebolendosi dunque e rafforzando, nel consumo o nell’acquisizione, chi il dono riceve, il donatore si rende apparentemente più inerme, mentre ll destinatario del dono è valorizzato riconosciuto degno del dono ed è rafforzato da quanto riceve.

Ma il destinatario del dono non è solo fruitore avvantaggiato del gesto, men che meno passivo fruitore. Nel gesto è coinvolto e anch’egli è in gioco, preso nella rete che, col dono, anche su di lui si tesse. Il donare non è cioè mai un puro e semplice dare: è, per quanto apparentemente unilaterale, in realtà una forma di scambio. Il fruitore deve infatti, anch’egli deposte le lance, per lo meno riconoscere il gesto del dono e, in risposta, il dono deve mostrare accettarlo. Già nel cenno di accettazione si avvia l’intreccio di una relazione. Nel cenno può venire il ringraziamento. Può venire l’esigenza di un successivo ulteriore dono di contraccambio.

Nel donare è cioè proposto un vincolo. Nell’accettazione del dono questo vincolo è stretto nel suo nodo. Da qui si diparte e si sviluppa vicenda.

Il potere inerme del donatore, che in ogni donare si esprime, apre così una convivialità. E la probabilità di una restituzione, di un contraccambio. Cui seguiranno perciò altri doni, vicende, altre relazioni sociali.

Nell’età della merce, l’arcano del dono

La pratica sociale del dono è dunque arcaica, radicata nelle pratiche umane istitutive della relazione sociale.

Anche oggi, per quanto edulcorata e subordinata alla forma imperante della merce, è più e altro che una semplice consuetudine o un modo di esprimere gli uni verso gli altri buoni sentimenti. Non è solo (anche se è pure) semplice prassi sociale attinente agli usi (dei doni per le occasioni e le feste) e la generosità individuale. Non è solo modo per dare per qualche motivo a qualcuno la piacevole sensazione del ricevere un dono portando l’attenzione su sé di chi il dono lo fa. Ne è prova il fatto che anche nel più ovvio prevedibile e banale dei doni entrano in campo sentimenti complessi, quasi mai riducibili solo a generosità e gratitudine.

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“Dubitare presuppone già la certezza”

 (Wittgenstein.  Della Certezza).

Dubbi – in situazioni svariate, per differenti motivi – frequentemente ci assalgono. Più spesso si insinuano.

Dubbi circa la precisione di un certo ricordo. O circa la verità di un’idea, la veridicità di una proposizione linguistica, il significato di un comportamento, l’opportunità di una scelta…. Dubbi investono il passato, dubbi investono il futuro, in quanto tale sempre incerto. Nulla del passato magari è attendibile, quanto è qui ora di fronte magari è allucinazione. In qualsiasi situazione e momento, può un dubbio affiorare. E dilagare anche, pare (come nell’inquietudine delle crisi in cui nulla più sembra certo e tutto oscilla).

Se tutto questo è esperienza od esperienza possibile, quella in cui il dubitare consta, quando appare dubbio non è però dubbio che il dubbio sia dubbio.

Questo è importante (forse paradossale?): il dubbio, quando si impone, è, peraltro, indubitabilmente dubbio.

***

Già solo perciò – per il fatto cioè che dubitare è indubitabilmente tale quando si dà – il dubbio si impone – in certo senso stranamente, esso che è dubbio – come evidenza. Tal quale ogni altra percezione attuale e ogni contenuto di pensiero attuale in quanto è in atto, anche il dubbio, quando si dà, si impone: evidenza inemendabile nel mentre si staglia. Persino il dubbio quindi, nel suo essere in atto, è indubbio: ossia è dunque certezza.

Non c’è dubbio dunque senza certezza.

Ciò già solo per il fatto che dubbio per essere tale deve essere certamente dubbio. Tanto che se è vero che si può porre in dubbio anche la certezza di un dubbio, questo dubbio (sul dubbio) non può che riferirsi alla certezza di un dubbio, certezza antecedente e anteposta. Ma non c’è dubbio senza certezza (persino nel caso di un dubbio su un dubbio) anche e soprattutto perché ogni dubbio, in realtà (e non solo il dubbio su un dubbio) non può che porsi in seconda battuta. Solo se dapprima una certezza è posta (sia pur quella vaga di un incipiente avvenire), disponibile al dubbio sì, ma non dubbia, il dubbio potrà infatti investirla.

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[È stato appena pubblicato (anche in ebook) dall’editore romano Nottetempo l’ultimo pamphlet del noto filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han (teorico dell’ipermodernità e docente all’Università delle Arti di Berlino) dal titolo (apparentemente vattimiano) La società della trasparenza (Transparenzgesellschaft, Berlin 2012). L’argomentazione, con numerosi riferimenti teorico-critici (impliciti) e dialettici in senso hegeliano (espliciti), mostra non poche affinità con i temi oggetto di riflessione recente su Prismi. Pare dunque interessante proporne un estratto, utile anche per un confronto con quanto si pubblica, si è scritto e si scrive ancora nel nostro paese in merito alle virtù della trasparenza (da Popper a Vattimo, passando per le retoriche e gli outing delle case di vetro come quella del “Grande Fratello”). Accanto a vari motivi di accordo (come la funzione socialmente stabilizzante della pratica consistente nell'”emettere sé” o la metafisica della presenza insita nella società della trasparenza) fra i possibili nuclei di controversia (anche per la tonalità piuttosto sentenziosa) v’è soprattutto la tesi – derivante in primis dalla teologia politica di Carl Schmitt – che la trasparenza necessaria alla vita democratica sia sempre e comunque “coercizione sistemica” e che la politica abbia bisogno degli arcana imperii; oppure l’altra tesi, performativamente contraddittoria, per cui la teoria – ogni teoria – sarebbe il frutto di una decisione e quindi di una violenza che condurrebbe inevitabilmente alla “fine della teoria”. Resta il fatto che Byung-Chul Han individua con maggiore precisione epistemica una risposta già parzialmente formulata nel precedente lavoro sulla Società della stanchezza e cioè che l’attuale liquefazione delle capacità critiche dell’individuo di cui vive la liquid modernity deriva proprio dal fatto che “niente è impossibile”, cioè dall’eccesso di positività e non certo da un sovraccarico di negativismo o di sfiducia nel futuro. Il testo, riformattato per la lettura su blog, corrisponde alla sezione intitolata “La società del positivo”, la cui versione PDF è liberamente scaricabile dal sito dell’Editore che però non riporta i riferimenti bibliografici (A.B.)].

Nessun’altra parola d’ordine oggi domina il discorso pubblico quanto il termine “trasparenza”. Essa è enfaticamente invocata soprattutto in riferimento alla libertà d’informazione. L’onnipresente richiesta di trasparenza, che si radicalizza nella sua feticizzazione e totalizzazione, risale a un cambiamento di paradigma che non può essere circoscritto all’ambito della politica e dell’economia. La società della negatività cede, oggi, di fronte a una società nella quale la negatività è costantemente soppressa a vantaggio della positività. Perciò, la società della trasparenza si manifesta in primo luogo come società del positivo.

TransparenzGesellschaftLe cose diventano trasparenti quando si liberano da ogni negatività, quando sono spianate e livellate, immesse senza opporre alcuna resistenza nei piatti flussi del capitale, della comunicazione e dell’informazione. Le azioni diventano trasparenti quando si rendono operazionali, quando si sottopongono a un processo di misurazione, tassazione e controllo. Il tempo diventa trasparente, quando è ridotto alla successione di un presente disponibile. Cosí anche il futuro è positivizzato nel presente ottimizzato. Il tempo trasparente è un tempo senza destino e senza eventi. Le immagini diventano trasparenti quando – liberate da ogni drammaturgia, da ogni coreografia e scenografia, da qualsiasi profondità ermeneutica, in definitiva da ogni senso – sono rese pornografiche. La pornografia è il contatto immediato tra immagine e occhio. Le cose diventano trasparenti quando rinnegano la propria singolarità e si esprimono interamente attraverso un prezzo. Il denaro, che rende ogni cosa equiparabile all’altra, abolisce ogni incommensurabilità, ogni singolarità delle cose. La società della trasparenza è un inferno dell’Uguale.

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1. In una recente intervista Giorgio Agamben ha ricordato il significato originario della parola crisi, da intendere, da un lato, “come momento di giudizio e di scelta” ma, dall’altro, come “strumento di governo”, utile per “legittimare decisioni politiche ed economiche che di fatto privano i cittadini di qualsiasi possibilità di decisione”. Tesi o teorie come questa sono all’ordine del giorno e danno un alibi intellettuale alle nuove teorie del complotto Bruxelles/BCE e una giustificazione all’antieuropeismo pratico. La stessa parola “crisi”, invece di produrre una domanda razionale sulla sua genesi ed evoluzione, evoca invece paradossi e circoli viziosi: il momento in cui si potrebbe decidere e valutare meglio il da farsi verrebbe subito “sequestrato” dai mercati e dai poteri economico-finanziari e quindi sottratto alla sovranità popolare. Eppure questo non è affatto un paradosso o un problema per gli economisti teorici fautori del mercato. Vista la razionalità limitata di singoli individui, gruppi, classi, istituzioni, cioè degli ordini normativi (vedi § 2), gli economisti spiegano facilmente la crisi senza scomodare etimologie, paradossi o complotti: i mercati hanno comunque una razionalità sistemica superiore a quella dei singoli individui o aggregazioni di individui e quindi producono vantaggi sistemici, cioè disponibili a tutti. La totale assenza di normatività etico-morale che caratterizza i macromovimenti dei mercati è, in ultima analisi, la risultante di miriadi di scelte avvenute già nel settore microeconomico: finanziamenti richiesti da pmi, privati, associazioni alle banche, investimenti di piccoli e grandi risparmiatori, operazioni speculative in Borsa, insomma: movimenti finanziari voluti proprio da singoli e gruppi di interesse ben noti e non certo da forze anonime e occulte che cospirano a danno della società civile

Naturalmente la connessione funzionale di vantaggi (il broker compra ai suoi clienti se il prezzo è basso, vende quando è alto, può fare speculazioni al rialzo e al ribasso, ritardare le vendite, insomma: cerca il più possibile il massimo vantaggio al minor costo, un po’ come il bravo consumatore) implica la matematica e il calcolo, non la morale. Perciò, una volta innescati, questi meccanismi finiscono pefixingr regolare tutto un insieme di rapporti sociali «ampiamente stacccato da norme e valori, appunto quei sottosistemi di agire economico ed amministrativo razionali rispetto allo scopo che, secondo la diagnosi weberiana, si sono resi autonomi rispetto ai propri fondamenti pratico-morali» (Teoria dell’agire comunicativo, Bologna 1986, vol. 2, p. 750). Habermas vede soprattutto nell’Entsprachlichung – che si potrebbe rendere come deprivazione o svuotamento linguistico-comunicativo-morale – il risultato di questa riduzione del mondo della vita a sottosistema degli imperativi sistemico-funzionali espressi dai mercati finanziari. Essi certo movimentano, fanno circolare, valorizzano il medium denaro in forme puramente quantitative (e qui hanno ragione gli economisti), ma tali forme appaiono del tutto dissociate da ogni possibilità di risignificazione linguistico-comunicativa. Gli economisti rimuovono (e questo fa parte integrante della loro tristitia) il fatto che così la vita diventa un sottosistema della sfera della circolazione finanziaria, cioè una funzione o – come vuole e accetta Luhmann – soltanto lo sfondo su cui operano quelle particolari organizzazioni che operano in base alla razionalità strumentale. Una volta dato questo per ovvio, non ci si può nemmeno lamentare della perdita di sovranità dei cittadini divenuti sudditi delle troike finanziarie e dello spread e tirare sempre in ballo la teologia politica di S. Paolo o di Taubes anche per demonizzare il credit crunch: semplicemente si vive sulla propria pelle questa cosa che sembra un’astrazione e che invece è realtà operante e operativa proprio perché la vita è stata derubricata a funzione del voglio pagar poco e guadagnare tantissimo. (Forse quest’epoca, definita da Benasayag «l’epoca delle passioni tristi» potrebbe diventare l’epoca della compiuta consapevolezza di quanta libertà dobbiamo rinunciare ogni volta che accettiamo che siano i mercati a regolare le nostre vite: cfr. questo articolo su Noisefromamerika).

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untitled4Il nostro tempo è tempo dell’oblio, sempre più marcato sempre più evidente, della memoria storica.

Non è cosa del tutto nuova sotto il sole: masse umane, nei secoli e nelle epoche del mondo, sono vissute prive di qualsiasi nozione storica, che non fosse forse depositata, in veste miticamente deformata (e quindi non storica), in narrazioni tramandate. Ma oggi la situazione è ben altra, nuova e diversa: la memoria storica (storiograficamente, e dunque in qualche modo scientificamente, elaborata) è disponibile in linea di principio per chiunque. Eppure le masse la storia per lo più non la conoscono. La memoria storica è perciò per lo più obliata: in questo senso essa è rifiutata. Nessuna tradizione condivisa autorevolmente tramandata peraltro supplisce più ad essa. La memoria storica perciò è bussola assente.

Bussola di cui peraltro nemmeno più si sente la mancanza. Assenza che non sembra alimentare alcuna nostalgia. L’oblio della memoria sembra sia cioè anch’esso obliato.

Come forse è naturale sia se, intrecciata a tale oblio della memoria storica ad esso pure si somma, peraltro pure suffragata da ben reali motivi, una sostanziale chiusura dello spazio in cui si delinea il futuro. Per cui l’oblio della memoria storica, in tal modo, si incunea in uno spazio esistenziale asfittico, appiattito in un angusto presente, perciò incapace di percepire assenze.

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PerliniTito Perlini nasce a Trieste nel 1931. Conclusi gli studi ginnasiali, si iscrive alla facoltà di Lettere moderne dell’Università di Trieste, dove si laurea alla fine degli anni Cinquanta con una tesi sul Doktor Faustus di Thomas Mann. Dopo aver lavorato in azienda (come Ottieri e Volponi), nel mondo dell’editoria e della pubblicità (come Bianciardi), approda all’insegnamento liceale e solo negli anni Ottanta ottiene l’associazione a Ca’ Foscari per la cattedra di Estetica, mantenuta fino al 2001.
Le sue principali monografie si collocano fra la metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta: Che cosa ha veramente detto Kierkegaard, Che cosa ha veramente detto Marcuse e Utopia e prospettiva in György Lukács, tutti pubblicati nel 1968; Che cosa ha veramente detto Adorno e Lenin. La vita il pensiero i testi esemplari (1971) e Gramsci e il gramscismo (1974). Ma questi saggi, ormai introvabili, costituiscono solo una piccola parte dell’enorme attività pubblicistica di Perlini, condotta, oltre che su riviste specialistiche, anche su quotidiani (il manifesto, Il Secolo XIX) e vari settimanali.
Un semplice elenco delle sue amicizie delinea un quadro nitido della sua natura vitale e poliedrica, sperimentale ma sempre attenta alle trasformazioni dello Zeitgeist. Arduino Agnelli, Claudio Magris, Cesare Cases, Furio Jesi, Edoarda Masi, Giovanni Raboni, Ferruccio Rossi Landi, Elvio Fachinelli, Franco Fornari e, soprattutto, Franco Fortini mostrano la sua entusiastica adesione a una concezione non irregimentata e non settoriale della cultura e dell’impegno intellettuale. Spaziando dalla letteratura al cinema, dalla psicoanalisi alla musicologia, Perlini giunge infine la filosofia grazie soprattutto all’esistenzialismo di Pareyson e di Paci.
L’incontro con il marxismo, la psicoanalisi e la Scuola di Francoforte fa inclinare i suoi interessi sempre di più verso la filosofia. Dopo i saggi dedicati a Lukács, comincia un progressivo distacco dalle tesi del pensatore ungherese sotto il segno della teoria critica di Adorno, Horkheimer, Benjamin, Marcuse e del pensiero utopico di Ernst Bloch. Per la rivista “Comunità” è fra i primi traduttori italiani di Habermas (“Odissea della ragione nella natura”, la sua unica traduzione); per la casa editrice romana Ubaldini introduce a un più vasto pubblico italiano il pensiero di Adorno, Marcuse e Lenin. Contemporaneamente intensifica l’impegno politico con la sinistra radicale, sia con appassionati interventi pubblici, sia attraverso la frequentazione del circolo psiconalitico di Fachinelli “L’Erba Voglio”.
Il pensiero di Tito Perlini oscilla fra una partecipazione all’effettività, alla Wirklichkeit, e la tensione a quell’altro dall’esistente, a quella horkheimeriana «nostalgia del totalmente altro» (o, blochianamente, del “non-ancora”) senza la quale ogni sguardo rivolto all’esistente si sfrangia e perde ogni verità.
Non a caso la sua interpretazione della teoria critica francofortese ha valorizzato soprattutto il lato utopico e messianico delle istanze contenute nel vasto e articolato corpus francofortese. Utopia contra lógos, si potrebbe forse riassumere, citando uno dei suoi numerosi saggi dedicati ad Adorno. Ed è il pensatore di Francoforte colui che maggiormente sembra incarnare l’ideale di filosofia di Perlini: non tanto per il suo negativismo dialettico, quanto piuttosto per aver colto la necessità di ripensare le possibilità dell’individuale e soprattutto dell’estetica nell’epoca della loro liquidazione. La teoria critica di Adorno è dunque impulso etico e utopico che si esprime al massimo grado nella coscienza inconciliata dell’arte, nella resistenza al reale tanto nelle opere di Joyce, Kafka e Beckett, quanto nell’arte al nero di Malevič e nella musica atonale di Berg. La conciliazione non può essere estorta o forzata, come voleva ancora il Lukács teorico del realismo. La ragione, nel mondo amministrato e accecato, dominato dalla razionalità strumentale, non può che criticare spietatamente se stessa, non già pretendere di fungere da istanza armonizzante e conciliatrice.
Per mantenere quella tensione tra effettività e alterità diviene allora in qualche modo necessario guardare anche oltre la tradizione della teoria critica che sembra avvitarsi in «una teoria rivoluzionaria senza prassi rivoluzionaria», un congedo dalla mera teoresi «incapace di congedarsi da se stesso», come sottolineerà Perlini negli ultimi saggi dedicati alla Scuola di Francoforte. Benché si tratti di tesi esposte anche da Krahl e dal giovane Habermas, la strada che intraprenderà Perlini per uscire da quelle che ormai giudica le insuperabili aporie del pensiero critico-negativo sarà del tutto diversa. Avvicinatosi alle posizioni antimoderne di Augusto Del Noce, Perlini tenterà, da laico, un confronto e una riappropriazione della tradizione religiosa e metafisica nell’epoca del postmoderno, della ragione cinica e del relativismo, riavvicinandosi, in un periplo compiuto, alle “considerazioni impolitiche” del suo amatissimo Thomas Mann.

Per me Perlini non è stato solo un docente, il correlatore della mia tesi di laurea in filosofia nel lontano 1994: è stato un amico, un maestro e un pioniere di nuovi percorsi intellettuali. La sua umanità debordante e trascinante, mite e spassosa, era sempre in grado di sorprendermi e di farmi pensare, ridere, sussultare, qualche volta intimidendomi ma più spesso sollecitandomi ad andare oltre, comunque sempre incitandomi a riflettere attentamente sulle sue parole, finanche sulle sue manie, sulle sue fissazioni, anche e soprattutto quando non ero d’accordo con lui e la sua fragorosa radicalità. Nel suo pensiero, infatti, ho sempre ritrovato un vigore e una passione d’altri tempi, da gentiluomo e intellettuale mitteleuropeo finemente altmödisch, forse vicino allo spirito dei Kulturkritiker ma al tempo stesso anche capace di tenere bene a distanza, senza peraltro temerli, i loro esiti più deleteri. Nel suo eloquio torrenziale ma piacevolissimo, nelle sue impuntature solenni, nei suoi capricci improvvisi qualcuno ha detto che si scatenavano i suoi “demoni metafisici” che talvolta lo (ci) prendevano alla sprovvista: più semplicemente io vi ho sempre visto quella passione intellettuale e morale che ormai manca a un mondo divenuto felicemente amministrato e altrettanto allegramente alienato. Non credo sia possibile confinare e “concludere” Tito Perlini in qualche elegante e accomodante definizione. Non credo nemmeno sia possibile scrivere un saggio sul suo pensiero, tale era la sua singolarità esistenziale da corrispondere davvero a “quel singolo” di cui parla Kierkegaard. Il suo pathos inesauribile, enciclopedico, talvolta polemico ma soprattutto etico-utopico, resta per me una lezione di vita e non mera dottrina accademica.

Articolo di Claudio Magris apparso sul “Corriere della Sera” del 27 settembre

Articolo di Annalisa Perini apparso su “Il Piccolo” di Trieste del 27 settembre

Articolo di Roberto Timossi apparso su “Avvenire” del 28 settembre

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