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Archive for the ‘Dialetticamente’ Category

“…per la contradizion che nol consente.

Oh me dolente! come mi riscossi

quando mi prese dicendomi:

«Forse tu non pensavi ch’io loico fossi!».

(Dante, Divina Commedia, Inferno, XXVII,120-123)

  • Oltrepassamento della contraddizione

Una contraddizione può essere risolta interpretando almeno uno dei termini dell’opposizione in cui essa consiste in modo da renderlo compatibile con l’altro.

Per far ciò, almeno un termine va allocato in un contesto diverso da quello in cui sta nell’opposizione. In tal modo a essere posta in un contesto diverso è la stessa contraddizione, i cui termini, nella ricontestualizzazione, vengono inclusi in un ambito più ampio al cui interno la contraddizione è oltrepassata. Nell’oltrepassamento che così si configura, nel contesto più ampio entrambi i termini si rideterminano nel loro significato, consentendo così il superamento della opposizione che dipendeva dal significato che essi esibivano.

L‘ampliamento dello sguardo e quindi del contesto consente in sostanza il rinvenimento di un medio tra i due termini opposti, medio che prima non appariva e che ora, comparendo nel contesto più ampio, consente di mantenere la relazione tra i due termini dapprima opposti, ma insieme consente di superare la loro incompatibilità risolvendo in tal modo la contraddizione oltrepassandola.

La contraddizione in quanto opposizione inconciliabile tra i due opposti viene in tal modo tolta . Oltre-passarla, superarla, sollevarvisi sono modi adeguati per indicare l’attraversamento in cui essa contraddizione consiste.

  • Ampliare lo sguardo: riconfigurare orizzonti

Il movimento di risoluzione della contraddizione non può dunque che essere un’estensione dello sguardo oltre i confini in cui era dapprima circoscritto, approdando ad un nuovo più ampio orizzonte in cui tutto quanto era dapprima considerato viene mantenuto riconfigurato..

Se si trattasse infatti – nella pura e semplice eliminazione di uno dei due termini opposti – di superare la contraddizione tenendo semplicemente fermo uno dei termini opposti rendendo semplicemente inconsistente e quindi inesistente l’altro, ciò comporterebbe che di questo altro dovrebbe scomparire ogni traccia, compresa ogni traccia passata. Ne dovrebbe dunque svanire anche ogni memoria.

La contraddizione non sarebbe però in questo modo risolta.

Si avrebbe infatti nulla più che un annichilimento di ciò che peraltro è posto. La apparente risoluzione della contraddizione risulterebbe semplicemente l’assurdo del porre inesistente ciò che invece è esistente. Nella misura in cui l’inesistente viene comunque pensato in quanto negato, la contraddizione sarebbe in realtà non risolta ma piuttosto, nichilisticamente, ribadita e accentuata

  • Contraddizione è dolore

Contraddizione non è peraltro soltanto una dimensione logica. Ha a che fare anche con termini che hanno consistenza ontologica. In molti casi consistenza incarnata, esistenza, vita. La contraddizione è quindi anche conflitto, ingorgo, sofferenza.

In essa consiste il dolore, nella misura in cui il dolore è apparire (posto che apparire è il voluto, ciò che comunque si vuole sia) del rifiutato. Nella contraddizione, in quanto dolore, ciò che appare è sia voluto che rifiutato.

  • Nella circostanzialità (di tutto l’essere) delle storie di vita

La contraddizione è quindi un vissuto. Sempre, poiché anche la pura logica è un vissuto. A maggior ragione quando essa brucia e incide in corpo e mente.

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(…)

Conoscere sé per mezzo dell’altro

Amavo Socrate nella convinzione che toccasse a me – se mi concedevo a Socrate – di ascoltare proprio tutto quello che costui sapeva”

(“Simposio”, discorso di Alcibiade)

Nella vicenda amorosa, alimentata dal desiderio e sostenuta da indizi di una promessa possibile, l’amante vuole dunque avere accesso alla trasparenza di tutto l’amato. E questo accesso lo vuole (r)assicurato, ancorato a un “per sempre”.

A tal fine l’amante interpella, parla, chiede, progetta, escogita, pensa. Si arrovella perciò nel tentativo di indirizzare il discorso, lo propone, cerca così di intessere dialogo e di alimentare in tal modo una storia. Ma, nonostante tutte le intenzioni e accortezze, il discorso d’amore può essere governato e dominato solo in piccola parte.

L’amante vorrebbe infatti svelare l’amato in trasparenza assoluta, catturarne il segreto, ma l’amato – finché è desiderato – sfugge alla presa. Si desidera infatti solo quanto non si possiede e l’amato desiderato resta – finché il desiderio lo agogna – in quanto tale non colto nel suo prezioso segreto. Questo segreto alimenta la vicenda d’amore, per cui le parole (e quindi i significati delle singole azioni) nella trama del discorso e della storia d’amore non possono avere mai chiaro e univoco senso, ma possono solo alludere a quanto significano. In gran parte dunque anche sviano e nascondono.

Perciò nella vicenda e nel discorso d’amore nessuno governa la cosa, men che meno l’amante. Quanto accade è quindi sempre anche altro da quanto è ordito. Le parole e le azioni innescano cioè sempre anche altro da quanto, peraltro confusamente, è auspicato. Di questo altro il discorso e la vicenda amorosa sono la cifra, che non scioglie l’enigma.

L’amante è cioè dominato da una potenza, che lo attrae e che egli attribuisce all’amato. Perciò vuole conoscere dell’amato tutto: perché vuole sapere della figura e del segreto di questa potenza – in quel tutto intravista – che così tanto lo attrae. Ma, nel perseguire questo intento, non ha in realtà mai esperienza di tale potenza, che ritiene essere altra da sé. Quel che davvero l’amante esperisce, quel che gli accade davvero è invece inevitabilmente esperire (e quindi in qualche modo conoscere) innanzitutto una parte di sé: quella parte che, essa potenza, a contatto con la supposta potenza dell’altro, si accende e si espande.

L’interesse, colmo di desiderio, è guidato quindi, in tal modo, sì dalla ricerca dell’identità dell’amato. Ma questa ricerca è piuttosto occasione e pretesto per percorrere in realtà altra via, nella quale la vera posta in gioco del desiderio attivato si mostra. L’unica via percorribile, l’unica che dunque per davvero sia in gioco, è infatti quella che porta a conoscere quella specifica parte di sé che è attratta e potenziata dalla specifica forma di potenza nell’amato intravista.

Nel conoscere e accedere a tale potenza il rapporto d’amore si svela essere in realtà mezzo per conoscere . (altro…)

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Auto-narrazione e epilogo

L’annunciata o proclamata morte della filosofia, le varie ipotizzate forme del suo oltrepassamento, il tramonto della metafisica e dei suoi immutabili, la marginalità socio-politica dell’etica e dei saperi filosofici: tutto ciò è contemporaneità.

Di ciò per lo più la filosofia è del tutto consapevole, tutto ciò spesso lo tematizza esplicitamente. In questa riflessione sulla sua possibile fine, la filosofia delinea insieme la vicenda che si va, forse, a concludere, cioè l’auto-narrazione della tradizione in cui essa consiste.

In tal modo, nel pensare sulla sua fine, ipotizza anche un inizio (per lo più in un certo luogo, la Grecia, e un certo momento, il VI secolo a.C.) per cui la fine non è che l’epilogo della vicenda che dalla radice greca dispiega l’Occidente per poi concludersi nel mondo (della tecnica) contemporaneo.

L’incontrovertibile

La filosofia, nel ritenere possibile la sua fine, si pensa quindi come una vicenda storica. Ma non come uno qualsiasi tra i tanti saperi sorti nel corso della storia umana via via escogitati dall’uomo per potere abitare il mondo.

Essa si reputa infatti sguardo volto all’intero, al tutto (all’essere): a ciò dunque oltre cui v’è nulla, che perciò da nulla potrà mai essere confutato. Si pensa quindi come il dire l’assolutamente vero, come sguardo in cui la verità si mostra. Unico e solo sapere incontrovertibile.

Ciò ha del paradossale: il sapere rivolto alla verità, che intende essere l’assolutamente stante, irrefutabile nella sua evidenza, si pensa anche come una vicenda storica, quindi contingente.

Avvicinarsi al vero

Ma paradossale è l’intenzione stessa del filosofare.

Il dire, in cui la filosofia consiste, è infatti una parte del tutto: lo sguardo che intenziona il Tutto. Ma la parte non può che rispecchiare il Tutto in parte, ossia astrattamente, nella contraddizione per cui il Tutto appare sì, ma non tutto, non concretamente. La parte in cui consiste lo sguardo filosofico inoltre, non potendo mai vedere il punto cieco in cui consiste il sè che guarda, mai potrà vedere tutto.

La filosofia perciò tende a qualcosa (la verità sul tutto) che mai potrà raggiungere (se non astrattamente, se non prospetticamente). Perciò della verità non può che essere ricerca, al più storico asintotico accostamento al vero.

Dubbio ed enigma

Tendendo all’intero, la filosofia non concede inoltre presupposti.

Perciò li mette in dubbio tutti (lo scetticismo le è essenziale). E il suo paradossale dire in una parte il Tutto la spinge a focalizzare ciò contro cui il dire cozza: i limiti, i nodi aporetici, le pieghe, i margini del reale e il dire.

Qui il pensiero incontra i problemi, le situazioni- limite, le tautologie e le contraddizioni che anche lo innervano.

Qui anche è la filosofia: là dove l’enigma si staglia.

Il filosofo ad esso si accosta, vi si accasa. Talvolta lo scioglie, ma solo per ritrovarne un altro, un poco oltre.

Le altre vie

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Qual è il tuo scopo nella filosofia? Mostrare alla mosca la via d’uscita dalla sua trappola.”

Con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio”

(Ludwig Wittgenstein)

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“Queste foglie che appaiono dietro il vetro della finestra sono in relazione a ogni altro essente e quindi esse, come tali, includono in sè, in un modo specifico, ogni altro essente:… lo includono… come altro, e di esso includono un aspetto finito: sì che in queste foglie sono inclusi …. il cielo e il sole e le più lontane galassie e quelle che la volontà interpretante pone come le opere dei mortali sulla terra e i loro pensieri e impulsi più reconditi: ed è dunque inclusa la totalità dei contenuti degli altri cerchi dell’apparire. E tutto questo è incluso… anche nel rumore della pioggia, nel ricordo del bel tempo di ieri e innanzitutto nella totalità degli essenti che appare nel cerchio orginario dell’apparire e che è l’ambito a cui appartengono queste foglie, il rumore della pioggia, il ricordo del bel tempo di ieri e ogni altro essente che appare. E tutti gli essenti sono inclusi in modo diverso nelle foglie, nel rumore della pioggia, nel ricordo…”

(Emanuele Severino “La Gloria pp.222-223)

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“Nell’apparire della parte più irrilevante del Tutto appare l’infinità delle tracce di ogni altro essente. Che non ci si accorga di questa infinita ricchezza è un limite dei criteri secondo cui si costituisce l’accorgersi”

(Emanuele Severino “La Gloria p.224)

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Tracciamenti intrecciati: assenze

Ogni ente (ogni vibrazione, ogni solidificazione, ogni fluire, ogni cosa dalla più imponente alla più impercettibile; quindi anche io, anche te) è insieme ad ogni altra cosa. Qualunque sia il contesto in cui tale insieme consiste, ogni ente è, in tale contesto, in relazione ad ogni altro (e al tutto).

In questa relazione ogni ente lascia, in ogni altro, traccia, la sua specifica traccia.

La traccia è la presenza dell’altro – di cui è traccia – in ciò che dalla traccia è in tal modo inciso e segnato. Il segno dell’altro (di ogni altro) più o meno profondamente è quindi in me (così come è in te).

La traccia è quindi presente là dove incide, là dove è accolta; ma l’altro, presente in traccia, non è però presente (non è là dove la traccia incide, non è là dove la traccia è accolta) nella sua concretezza. Questa concretezza, l’intimo essere sè dell’altro, nella traccia è sì indicata, ma – tale concretezza – è, in ciò che accoglie la traccia, assente.

Nella traccia, cioè, l’altro è presente, ma ne è presente l’assenza.

Attraverso le tracce, ogni cosa è così in relazione a ogni altra, ma in quanto non è l’altra. Questo non esserlo è la sua traccia, la presenza della sua assenza.

Pulsanti contesti

Tutto il pullulare, il brulicare, il pulsare – in ritmi e stasi, e strati sovrapposti e interferenti – in cui il tutto consiste, tutto questo lascia traccia. Lascia così ogni cosa traccia in ogni altra cosa, in ogni sia pur minima cosa. Dappertutto, infinite tracce disseminate nel tutto

Perciò ogni cosa lascia traccia anche in me. Così come la lascia in te.

Io, tu, le infinite tracce presenti in noi. Tracce di cui non siamo mai la semplice somma, ma di cui siamo, ognuno e ciascuno, contesto specifico, unico irripetibile.

Noi; il contesto delle relazioni che in noi lasciano traccia.

Noi: il contesto, che a nostra volta ovunque lasciamo, in altri contesti, la nostra traccia.

Incontri

In me dunque tu, nell’incontro (o nel non incontro), lasci tua traccia.

Nella relazione tra me e te la tua traccia è presenza in me di un tuo aspetto.

È questo aspetto la traccia: la presenza (in gesto, in volto, in lato prospettico) della relazione tra me e la tua assenza (se tu fossi nella tua concretezza in presenza in me, non saresti più l’altro, non saresti tu, ma solo null’altro che qualcosa di me).

Nell’incontro, presente è la traccia. Nell’incontro si disseminano le tracce reciproche di ciò che nell’incontro si accosta

In me presente è perciò la tua traccia, in cui tu eccedi, assente nella intima concretezza in cui consisti, tutte le tracce infinite che ovunque rilasci,

In me è questa tua infinita assenza (il tuo non essere me, la tua differenza). In te io pure lascio traccia: la mia infinita in te presente assenza (nella quale presente, in traccia, è la tua assenza).

Nella traccia si dà perciò la differenza: l’interfaccia del nostro legame in cui uno non è l’altro, cioè è differente dall’altro, nella separazione in cui siamo insieme (nel contesto).

Enigmi e problemi

Ma le tracce sono enigmatiche.

Indecifrate: perciò sono ambigue.

Indecifrate, esse sono problema.

Nell’enigma ogni traccia è infatti disponibile all’interpretazione. Può essere traccia di questo ma anche di altro, in nesso con questo ma anche con altro. Nell’intreccio complesso in cui la vita consiste, questa oscillazione del significato è, ontologicamente e esistenzialmente, il problematico.

Nel problema, che in tal modo si staglia, è una strozzatura, un sostare dell’inquietudine che si sospende in ingorgo.

Lo sblocco, la direzione (la soluzione) sono assenti. Presenti in assenza di essi vi è traccia. Ma nulla più che una traccia.

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„Il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre
fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile.“
(Woody Allen)

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Accade… Tra le parole e i convenevoli che si dispiegano nello spazio delle relazioni sociali qualcuno fa una battuta di spirito. Una parola azzeccata, un gioco di parole, un gesto, induce un sorriso (o un ghigno), magari fa prorompere una risata. Qualcuno – si dice in tali casi – fa dell’umorismo.

Si insinua allora, o irrompe, un quid che marca la comunicazione. Sia che ciò abbia una funzione eversiva rispetto all’ordine del discorso che si sta articolando o che – come in alcuni copioni sociali è – sia invece magari pure richiesto o previsto, comunque, quando nel discorso in tal modo entra dell’umorismo, nel fluire della relazione una nuova nota suona, si apre uno stacco.

Qualcosa apre un varco.

Dell’altro entra in scena.

O-scena allegria

Qualcuno – interloquendo con altri entro un contesto – con un gesto o a parole, in modo diretto o con più o meno velata ironia, svela allora del mondo, del solito mondo in cui si dipanano i consueti copioni, un lato che stava fuori la scena (in qualche modo perciò lato o-sceno): il lato comico, divertente, umoristico.

Un gioco di parole, un incrocio di significanti in un lampo scoprono allora un nesso tra significati che lo sviluppo del discorso atteso e prevedibile invece tendeva a tenere distanti. Un fatto di linguaggio incrina in tal modo, o scompagina, serietà e posatezze. Qualcosa si mostra, in realtà incongruente ma non poi così tanto, inducente al sorriso o al riso: energie compresse incidono – nel sorriso in un abbozzo di gesto e apertura, o nel riso scuotendolo – sul corpo vivo dei parlanti smossi in tal modo da una energia: si ride.

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L’Uomo libero pensa alla morte meno che a qualsiasi altra cosa, e la sua sapienza risulta dal meditare non sulla morte, ma sulla vita

(Spinoza. Ethica Libro 4, prop.67)

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1

All’inizio.

Una variazione si avvia: un primo moto. Un’apertura incrina, o strappa lacerando, il compatto.

Nell’aperto: un qualche recettore (una vibrissa, un’antenna, un qualcosa…) si erge e protende. A tentoni tasta: un primo sensore registra un contatto.

Un’interfaccia così si dispone. Un qua e un là si squadernano. Quindi altri inizi, prima o dopo, si avviano: nel dappertutto dilagano. L’incrinatura si insinua in tal modo in più punti, in più lati e volumi. La rete delle relazioni poco a poco in tal modo si intesse, si estende. Si intreccia, sviluppando via via tutte le concepibili forme di relazione possibili : nessi interconnessi, in reciprocità e interazione, a loro volta hanno inizio, dando inizio a forme via via più complesse. Nella comunicazione che così interconnette si fissano nodi, in-formazioni circuitano.

Alfine, a un certo punto e momento, un occhio (un orecchio, una bocca, un corpo senziente…) anch’esso si apre.

Anche sensazione e visione, in qualche forma, hanno quindi l’inizio.

Così il mondo – strutture significati sensi – si svela: (co)inizia a sua volta.

***

Dopo l’avvio – dopo l’inizio – nel mondo lì dispiegato allo sguardo, tutti gli (ulteriori) inizi sono allora possibili.

Inizi, più inizi, quindi proliferano in più punti e eventi. Ma tutti – ciascuno e l’inizio che per primo si avvia, sono sempre avvertiti come un già accaduto, come già sempre dato (quindi anche fuggito, sfuggito) e perciò sempre già stato. Quando un inizio è avvertito è perché esso è (già) accaduto, sempre già iniziato.

Nel mondo, nel suo dipanarsi ed esporsi, non si può, cioè, non concepire un inizio. Ma questo inizio (sorprendentemente?) non può che essere però che già sempre iniziato.

L’inizio – se da un lato non può che essere tale solo nel mentre esso accade – è però inizio solo se oltre sé stesso si dispiega ciò che da esso è iniziato. Ma non solo: e inizio e iniziato  – per essere tali – debbono anche essere come tali intravisti: come due eventi posti in sequenza nella relazione, appunto, di inizio e iniziato. Perchè l’inizio sia deve cioè anche, come inizio, essere intravisto. E quindi saputo.

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Svelandolo, quanto lo riconosce lo riconosce essere stato velato, ma nel mentre è svelato il velato diventa anche un passato. L’inizio è perciò sempre saputo come un già stato.

Il cominciamento è sempre già cominciato.

***

L’inizio (che sia un primo moto, o il primo sensore, o il primo occhio che si apre, finanche il primo sapere del mondo, il primo sapere di sé) è inizio e viene dunque sempre saputo – quale l’inizio che è – solo dopo accaduto: solo nel momento in cui l’iniziato lo svela – essendo da esso iniziato – quale suo (dell’iniziato) inizio. Ma inizio già iniziato. Quindi già passato: oltrepassato.

L’inizio perciò è pre-supposto. Posto come antecedente, passato.

L’inizio implica sempre vi sia l’iniziato. Senza un dopo, non si dà il prima che del dopo è l’inizio. E viceversa, il prima implica il dopo. Ma è solo nel dopo che questa struttura si mostra e si dispiega, nel suo prima e il suo dopo, nel suo dopo e il suo prima.

***

Solo dopo che l’evento è iniziato, si pone ed espone dunque l’inizio.

Solo dopo che l’evento è iniziato l’inizio viene a esser sé stesso. Si può dire: solo allora l’inizio inizia a essere inizio. E solo dopo che l’evento è iniziato è quindi possibile l’iniziato si accorga di essere cominciato (e si accorga così del suo inizio), rendendo possibile l’indicazione (e dell’inizio e di sè).

Questo indicare è sapere, in cui il mondo acquisisce direzione e cioè senso: in tal modo i significati in cui il mondo consiste possono diventare perspicui. Solo nel momento in cui l’occhio inizia a sapersi, in un iniziare (a sapersi) che sa di un altro inizio (il saputo) già avviato, il mondo inizia così anche nel suo significare: inizi si intrecciano, si dispongono, si sovrappongono, cominciano a dirsi.

L’inizio, astratto dal suo successore, è uno precedente il due, suo successore. Ma solo nel due l’uno si svela nella sua antecedenza: solo nell’interfaccia duale – nel crinale in cui la relazione più elementare si articola – l’inizio, distinto da ciò di cui è inizio, prende spicco di inizio.

L’inizio – in sé, privo di successore, non ancora inizio; in sé puro essere inconsapevole e in sé non consaputo – nell’interfaccia tra una mente ed un mondo si svela, nel suo essere inizio e essere quell’inizio: atto e momento in cui il dispiegarsi del mondo sboccia in una mente in cui il mondo – l’iniziato che sempre ha già sorpassato l’inizio – inizia a sapere di sé.

***

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Se dunque l’inizio è sempre già stato ed è realizzato quando l’iniziato non può che a sè anteporlo, è l’iniziato che inizia l’inizio, iniziando così a sapere l’inizio (e iniziando a sapere di sé quale iniziato).

Anche l’iniziato perciò inizia a sua volta: è anch’esso, un inizio: inizio di sé e inizio dell’iniziare a sapersi (iniziato già avviato da un inizio già sempre stato).

In questo senso l’inizio sempre va ad iniziare altro inizio. Ogni inizio (e ogni iniziato in quanto a sua volta è inizio) sporge sempre dunque daccapo verso altro iniziato, a sua volta iniziante (riconosciuto come tale in altro iniziato).

Sempre, perciò, si ricomincia, nell’iniziante apparire di quanto via via incomincia, nel sapere di ciò.

Sempre si ricomincia, da capo.

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Ogni segno, nel darsi come tale, è – nel suo a un certo punto iniziare a indicare – un inizio che indica cosa, che già è iniziata.

Ogni parola è un segno che sa, poiché dice. Nel suo fondo dice quindi sempre anch’essa un inizio – intravedendolo come già dato, cioè già iniziato. Ogni parola si riferisce a qualcosa che – essendo sempre in qualche modo riferimento, non può che esser già dato, nel suo essere stato un inizio. A sua volta anche la parola è poi essa stessa un inizio (colta come tale solo grazie al discorso, con essa e da essa iniziato.

In questo senso ogni presemantico è sempre già semantizzato. L’Uno è sempre (solo) a posteriori intravisto.

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L’inizio perciò è sempre (anche?) racconto, che dice il già stato già cominciato. L’inizio quindi è sempre nello spazio e nel tempo del mito, istituente e narrante solo ciò è già sempre accaduto. Ogni origine e ogni nascita sono un inizio che – come la nascita di ciascuno, sempre a posteriori saputa – non può che essere, solo dopo accaduta, saputa e narrata.

Narrarla è parola, cioè mito. Narrare di sé è sapersi: mitobiografia.

In questo senso ogni nascita è sempre un inconscio, che solo apparendo come già stato e iniziato può dire e sapere di sè.

***

Perciò sempre si ricomincia, con lo sguardo rivolto all’indietro, scorgente un indietro, che c’è ma era inconscio.

Sempre c’è un iniziato che perciò pensa e narra un inizio, per scoprirsi inizio iniziato.

Ma perciò anche sempre incominciante. Perciò sempre – noi – ricomincianti, nell’essere già cominciati.

Il nostro destino è sempre ricominciare un inizio già stato.

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Esistere psichicamente

Da questa artificiosa terra-carne

esili acuminati sensi

e sussulti e silenzi,

da questa bava di vicende

– soli che urtarono fili di ciglia

ariste appena sfrangiate pei colli –

da questo lungo attimo

inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,

da tutto questo che non fu

primavera non luglio non autunno

ma solo egro spiraglio

ma solo psiche,

da tutto questo che non è nulla

ed è tutto ciò ch’io sono:

tale la verità geme a se stessa,

si vuole pomo che gonfia ed infradicia.

Chiarore acido che tessi

i bruciori d’inferno

degli atomi e il conato

torbido d’alghe e vermi,

chiarore-uovo

che nel morente muco fai parole

e amori.

(Andrea Zanzotto)

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“Dubitare presuppone già la certezza”

 (Wittgenstein.  Della Certezza).

Dubbi – in situazioni svariate, per differenti motivi – frequentemente ci assalgono. Più spesso si insinuano.

Dubbi circa la precisione di un certo ricordo. O circa la verità di un’idea, la veridicità di una proposizione linguistica, il significato di un comportamento, l’opportunità di una scelta…. Dubbi investono il passato, dubbi investono il futuro, in quanto tale sempre incerto. Nulla del passato magari è attendibile, quanto è qui ora di fronte magari è allucinazione. In qualsiasi situazione e momento, può un dubbio affiorare. E dilagare anche, pare (come nell’inquietudine delle crisi in cui nulla più sembra certo e tutto oscilla).

Se tutto questo è esperienza od esperienza possibile, quella in cui il dubitare consta, quando appare dubbio non è però dubbio che il dubbio sia dubbio.

Questo è importante (forse paradossale?): il dubbio, quando si impone, è, peraltro, indubitabilmente dubbio.

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Già solo perciò – per il fatto cioè che dubitare è indubitabilmente tale quando si dà – il dubbio si impone – in certo senso stranamente, esso che è dubbio – come evidenza. Tal quale ogni altra percezione attuale e ogni contenuto di pensiero attuale in quanto è in atto, anche il dubbio, quando si dà, si impone: evidenza inemendabile nel mentre si staglia. Persino il dubbio quindi, nel suo essere in atto, è indubbio: ossia è dunque certezza.

Non c’è dubbio dunque senza certezza.

Ciò già solo per il fatto che dubbio per essere tale deve essere certamente dubbio. Tanto che se è vero che si può porre in dubbio anche la certezza di un dubbio, questo dubbio (sul dubbio) non può che riferirsi alla certezza di un dubbio, certezza antecedente e anteposta. Ma non c’è dubbio senza certezza (persino nel caso di un dubbio su un dubbio) anche e soprattutto perché ogni dubbio, in realtà (e non solo il dubbio su un dubbio) non può che porsi in seconda battuta. Solo se dapprima una certezza è posta (sia pur quella vaga di un incipiente avvenire), disponibile al dubbio sì, ma non dubbia, il dubbio potrà infatti investirla.

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Pubblico qui il testo preparato per il Festival della Filosofia di Ischia dedicato al concetto di “Tempo” http://www.lafilosofiailcastellolatorre.it/

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Concepire e pensare adeguatamente il tempo presenta notevole difficoltà e complessità, per lo meno per le insite nel concepire, senza contraddizione, l’istante in cui il tempo si mostra e che innerva il tempo nel momento in cui si pensa che tutto il tempo sia successione di istanti. Il tempo è tutto e sempre in istanti che, prima o poi, esistono. Ma concepire adeguatamente l’istante è problema.

Questa difficoltà ha motivi profondi nei modi di pensare che si sono affermati e sviluppati nella tradizione della filosofia occidentale, almeno per le tendenze presenti nel pensare gli enti, i finiti (gli istanti) isolati tra loro, in sé staccati dal tutto.

All’interno della tradizione filosofica occidentale da un lato sembra infatti assolutamente ovvio che l’istante sia momento del tempo senza il quale non c‘è tempo, il quale è successione fluida e continua degli istanti. Ma appena si va a fondo nel ragionare su cosa sia istante e come esso sia compatibile con lo scorrere del tempo fin da subito il pensiero filosofico si rende conto che, se l’istante è inteso come un ente delimitato quale momento distinto e perciò separato dagli altri istanti le due ovvietà (che il tempo sia fatto di istanti e che il tempo sia fluire) sono difficilmente compatibili.

Su questa base provo a ragionare sulla possibilità di individuare fondamentalmente due modi presenti per cercare di rendere conto, cioè per cercare di pensare adeguatamente, il rapporto che lega, come appena detto, in modo molto problematico tra loro l’istante e il tempo. In ciascun dei due modi si profila però una contraddizione, di un certo tipo per il primo modo e di un altro per il secondo. In taluni casi tale contraddizione viene esplicitamente riconosciuta e in questi casi si oscilla tra i tentativi di superarla (magari arrivando a negare la realtà del tempo) o di riconoscerla come insita nella cosa stessa, ossia come strutturale alla realtà e al tempo.

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Il prof. Luigi Vero Tarca, dando in tal modo seguito al dialogo avviato e in merito a questioni specifiche a suo tempo sollevate (cfr. https://prismi.wordpress.com/2020/08/10/9931/) mi ha fatto pervenire questa sua risposta, molto interessante e sotto molti aspetti chiarificatrice.

Lo spessore teorico delle sue considerazioni e le questioni filosofiche affrontate meritano, di per sé stesse e a prescindere dunque dal loro essere risposta a dubbi o domande, di essere attentamente considerate.

Le propongo dunque, qui pubblicandole e nell’intenzione di non lasciare le riflessioni circoscritte a uno scambio solamente “epistolare” interpersonale, alla dovuta attenzione

Paolo Masini

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RISPOSTA A PAOLO MASINI

5 OTTOBRE 2020

Grazie per le questioni che mi poni, le quali mi consentono di chiarire alcuni importanti aspetti della mia filosofia.

QUESTIONE N. 1

SULLA INTRASCENDIBILITA’ DEL NEGATIVO

All’inizio tu dici:

“Se “negativo” è un universale (per cui quindi sono “negativo” sia negato che negante) di cui ogni ente (in quanto non è un altro) è un’individuazione e se tale universale concreto, cioè tale da includere non solo formalmente (senza residui quindi) tutte le sue individuazioni, il dominio del negativo mi sembra dovrebbe essere inscalfibile.”.

Questo passo è un ragionamento che consta di tre momenti (che potremmo interpretare come due premesse e una conclusione): 1) “negativo” è un universale; 2) ogni ente è una individuazione di tale universale; 3) quindi il dominio del negativo è inscalfibile.

La conclusione sembra contraddire frontalmente la mia prospettiva filosofica, la quale parla del puro positivo, cioè del positivo puramente differente da ogni negativo e quindi in qualche modo svincolato dal negativo.

Articolo la risposta in due momenti: A) La risposta alla tua osservazione, divisa a sua volta in tre passi; seguita da B) Un paio di approfondimenti relativi alla nozione di negativo.

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Studentesse e studenti di alcune classi del quarto e quinto anno del Liceo Canova di Treviso, negli scorsi mesi di gennaio e febbraio  (quindi in presenza e prima del periodo di chiusura delle scuole per l’emergenza sanitaria), hanno partecipato, in orario curricolare, ad attività di Laboratorio di Pratiche Filosofiche, coordinati dai loro docenti e dal prof. Luigi Vero Tarca, che da  anni ormai  sta proponendo e realizzando specifiche esperienze di questo tipo, sulla base di rigorosi presupposti teorici e secondo modalità (e regole)  codificate e collaudate.

All’atto pratico quanto effettivamente è accaduto nelle classi si è sviluppato in realtà secondo modi non sempre esattamente e rigorosamente riducibili al rispetto delle regole che le Pratiche Filosofiche implicherebbero. L’attività a mio avviso ha avuto infatti anche le caratteristiche di una dialogo (a partire da un testo condiviso su proposta di docenti o studenti), cui tutti i partecipanti hanno a loro modo contribuito, che si è svolto in modo più spontaneo e sotto certi aspetti più casuale di quanto le regole non avrebbero consentito. Sotto molto aspetti si è messo di fatto in atto un esperimento di fare filosofia, e non solo parlare di filosofia, con studenti degli ultimi due anni delle Scuole Superiori, quindi con persone molto giovani e soprattutto abituate ad altre modalità di approccio alla filosofia (per loro una disciplina scolastica prima che una possibile esperienza personale e culturale). Ciò non ha però, secondo me, minimamente inficiato il valore di quanto è accaduto. Gli studenti, di loro, hanno trovato infatti l’esperienza molto interessante e per molti è stata senz’altro coinvolgente. A chi l’ha proposta e gestita ha fornito occasione per riflettere sui modi in cui proporre il fare esperienza filosofica a scuola (e forse su cosa possano anche essere, in contesti particolari, le stesse Pratiche Filosofiche).

Terminata l’attività nelle classi, riflettendo successivamente su quanto realizzato e sui suoi presupposti filosofici, ha preso poi corpo un breve scambio di mail tra me e il prof. Tarca, in cui sono emerse questioni a mio avviso filosoficamente rilevanti, che penso possano incuriosire o interessare chiunque abbia a cuore le stesse questioni o analoghe.  Nello spirito dell’attività delle Pratiche il prof. Tarca mi ha a suo tempo sollecitato anche a rendere in qualche modo non circoscritto a un solo ambito tra noi privato  le mie considerazioni. Penso che “pubblicare” in questo blog le parti delle mail in cui prende forma la conversazione filosofica intercorsa tra noi (sono omesse quindi le parti più “burocratiche” e più personali che non concernono direttamente questioni di filosofia) sia un modo per corrispondere a questa richiesta.  I testi delle mail scambiate sono quindi qui sotto riprodotti, tranne le parti omesse, pari pari (quindi mantenendo anche alcuni modi colloquiali, formalismi e ridondanze, almeno da parte mia, tipiche del registro linguistico epistolare). 

Va forse infine  precisato che tutta l’attività svolta ha preso avvio da un testo steso dal prof. Tarca, quale introduzione e presentazione dell’attività proposta, fornito a tutti i partecipanti. Al termine dell’attività il prof. Tarca ha poi fatto pervenire delle considerazioni finali, sollecitando docenti e studenti a una riflessione e a un possibile libero dialogo. La mia mail, in cui esprimo alcune considerazioni, richieste di chiarimenti e dubbi in  merito ad alcune questioni intende corrispondere a questa sollecitazione.  ll prof. Tarca mi ha quindi  generosamente e gentilmente risposto. A ciò è seguito un mio ulteriore intervento. Lo scambio si conclude quindi (per ora, forse) con alcune domande da me poste, innanzitutto a me stesso. Il discorso, con ciò, è dunque lasciato in qualche modo anche in sospeso, come peraltro è forse bene che sia, nel senso che resta aperto a tutte le ulteriori considerazioni e direzioni possibili.

Paolo Masini

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