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Archive for the ‘Didattica-mente’ Category

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Se gli umani nascessero liberi non si formerebbero – finché fossero liberi – alcun concetto di bene e di male

(Spinoza, Ethica 4.68)

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Nel mondo in cui siamo, per come ci appare entro l’interpretazione in cui consistiamo, siamo attorniati da cose. In questo mondo accadono eventi che reputiamo essere bene o essere male. Ma – per come intendiamo essere le cose in sè – non attribuiamo loro – alle cose – la responsabilità del bene o del male.  Non è, ad esempio, merito o colpa del sole splendere o non splendere nel cielo; l’uragano in sé non è cattivo ma è ciò che è; la pietra che cade facendo danno lo fa per gravità e non per sua perfidia…

Ciò che non è pensante non è – così pensiamo – imputabile del bene e del male. Non avendo coscienza della sua coscienza (e quindi del suo agire) infatti la cosa non pensante non sa. Nemmeno sa perciò di bene o di male. Materia, pietre e piante, ma anche animali e macchine (nella misura in cui pensiamo non abbiano coscienza di sé e di ciò che fanno) non sono, in sé, né buoni né cattivi (se non metaforicamente, o per nostri propri giochi psichici proiettanti su altro quanto invece ci pertiene). Bene e male appaiono solo nelle autocoscienze, solo entro uno sguardo che li individui o ponga soppesandoli. Solo una coscienza che sappia e possa dire “io” sa (e quindi fa) del bene o del male.

E’ nell’apparire in cui il pensiero autocosciente consiste che si dispongono infatti segni, ossia significati e tra questi il significato “bene” e il significato “male” sono segni-valore. Segni che cioè si stagliano e ergono emergendo da uno sfondo-contesto e prendendo, su un corrispondente disvalore, lo spicco che gli compete secondo polarità oppositiva. Posto e esposto nel suo essere identico a sé, e perciò opposto al suo proprio altro, il segno-valore configura in tal modo il necessario rimando dell’un polo all’altro (quali opposti che si negano l’un l’altro). Per concepire il bene si deve dunque concepire il male, e viceversa. Non si danno perciò bene o male in sè quali determinazioni isolate, ma solo quali implicantesi l’una con l’altra. 

La polarità in cui l’opposizione bene/male consiste non è però immediatamente posta.

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Pubblico qui il testo preparato per il Festival della Filosofia di Ischia dedicato al concetto di “Tempo” http://www.lafilosofiailcastellolatorre.it/

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Concepire e pensare adeguatamente il tempo presenta notevole difficoltà e complessità, per lo meno per le insite nel concepire, senza contraddizione, l’istante in cui il tempo si mostra e che innerva il tempo nel momento in cui si pensa che tutto il tempo sia successione di istanti. Il tempo è tutto e sempre in istanti che, prima o poi, esistono. Ma concepire adeguatamente l’istante è problema.

Questa difficoltà ha motivi profondi nei modi di pensare che si sono affermati e sviluppati nella tradizione della filosofia occidentale, almeno per le tendenze presenti nel pensare gli enti, i finiti (gli istanti) isolati tra loro, in sé staccati dal tutto.

All’interno della tradizione filosofica occidentale da un lato sembra infatti assolutamente ovvio che l’istante sia momento del tempo senza il quale non c‘è tempo, il quale è successione fluida e continua degli istanti. Ma appena si va a fondo nel ragionare su cosa sia istante e come esso sia compatibile con lo scorrere del tempo fin da subito il pensiero filosofico si rende conto che, se l’istante è inteso come un ente delimitato quale momento distinto e perciò separato dagli altri istanti le due ovvietà (che il tempo sia fatto di istanti e che il tempo sia fluire) sono difficilmente compatibili.

Su questa base provo a ragionare sulla possibilità di individuare fondamentalmente due modi presenti per cercare di rendere conto, cioè per cercare di pensare adeguatamente, il rapporto che lega, come appena detto, in modo molto problematico tra loro l’istante e il tempo. In ciascun dei due modi si profila però una contraddizione, di un certo tipo per il primo modo e di un altro per il secondo. In taluni casi tale contraddizione viene esplicitamente riconosciuta e in questi casi si oscilla tra i tentativi di superarla (magari arrivando a negare la realtà del tempo) o di riconoscerla come insita nella cosa stessa, ossia come strutturale alla realtà e al tempo.

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Studentesse e studenti di alcune classi del quarto e quinto anno del Liceo Canova di Treviso, negli scorsi mesi di gennaio e febbraio  (quindi in presenza e prima del periodo di chiusura delle scuole per l’emergenza sanitaria), hanno partecipato, in orario curricolare, ad attività di Laboratorio di Pratiche Filosofiche, coordinati dai loro docenti e dal prof. Luigi Vero Tarca, che da  anni ormai  sta proponendo e realizzando specifiche esperienze di questo tipo, sulla base di rigorosi presupposti teorici e secondo modalità (e regole)  codificate e collaudate.

All’atto pratico quanto effettivamente è accaduto nelle classi si è sviluppato in realtà secondo modi non sempre esattamente e rigorosamente riducibili al rispetto delle regole che le Pratiche Filosofiche implicherebbero. L’attività a mio avviso ha avuto infatti anche le caratteristiche di una dialogo (a partire da un testo condiviso su proposta di docenti o studenti), cui tutti i partecipanti hanno a loro modo contribuito, che si è svolto in modo più spontaneo e sotto certi aspetti più casuale di quanto le regole non avrebbero consentito. Sotto molto aspetti si è messo di fatto in atto un esperimento di fare filosofia, e non solo parlare di filosofia, con studenti degli ultimi due anni delle Scuole Superiori, quindi con persone molto giovani e soprattutto abituate ad altre modalità di approccio alla filosofia (per loro una disciplina scolastica prima che una possibile esperienza personale e culturale). Ciò non ha però, secondo me, minimamente inficiato il valore di quanto è accaduto. Gli studenti, di loro, hanno trovato infatti l’esperienza molto interessante e per molti è stata senz’altro coinvolgente. A chi l’ha proposta e gestita ha fornito occasione per riflettere sui modi in cui proporre il fare esperienza filosofica a scuola (e forse su cosa possano anche essere, in contesti particolari, le stesse Pratiche Filosofiche).

Terminata l’attività nelle classi, riflettendo successivamente su quanto realizzato e sui suoi presupposti filosofici, ha preso poi corpo un breve scambio di mail tra me e il prof. Tarca, in cui sono emerse questioni a mio avviso filosoficamente rilevanti, che penso possano incuriosire o interessare chiunque abbia a cuore le stesse questioni o analoghe.  Nello spirito dell’attività delle Pratiche il prof. Tarca mi ha a suo tempo sollecitato anche a rendere in qualche modo non circoscritto a un solo ambito tra noi privato  le mie considerazioni. Penso che “pubblicare” in questo blog le parti delle mail in cui prende forma la conversazione filosofica intercorsa tra noi (sono omesse quindi le parti più “burocratiche” e più personali che non concernono direttamente questioni di filosofia) sia un modo per corrispondere a questa richiesta.  I testi delle mail scambiate sono quindi qui sotto riprodotti, tranne le parti omesse, pari pari (quindi mantenendo anche alcuni modi colloquiali, formalismi e ridondanze, almeno da parte mia, tipiche del registro linguistico epistolare). 

Va forse infine  precisato che tutta l’attività svolta ha preso avvio da un testo steso dal prof. Tarca, quale introduzione e presentazione dell’attività proposta, fornito a tutti i partecipanti. Al termine dell’attività il prof. Tarca ha poi fatto pervenire delle considerazioni finali, sollecitando docenti e studenti a una riflessione e a un possibile libero dialogo. La mia mail, in cui esprimo alcune considerazioni, richieste di chiarimenti e dubbi in  merito ad alcune questioni intende corrispondere a questa sollecitazione.  ll prof. Tarca mi ha quindi  generosamente e gentilmente risposto. A ciò è seguito un mio ulteriore intervento. Lo scambio si conclude quindi (per ora, forse) con alcune domande da me poste, innanzitutto a me stesso. Il discorso, con ciò, è dunque lasciato in qualche modo anche in sospeso, come peraltro è forse bene che sia, nel senso che resta aperto a tutte le ulteriori considerazioni e direzioni possibili.

Paolo Masini

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Dialettica [etim.: dal greco dialégo/dialéghesthai: parlare, ragionare insieme, discutere: dire (légein) attraverso (dià)]. Strumento talvolta spregiudicato di oratori e avvocati, di retori e sofisti, “procedimento della discussione diretto a scuotere affermazioni dogmatiche e – come dicevano avvocati e comici – a rendere forte il discorso più debole” (Adorno), la dialettica viene a sua volta “dialettizzata” da Platone, che ne fa la scienza suprema, logica della symploké, della connessione, della relazione, della coimplicazione fra identità e differenza, essere e non essere, unità e molteplicità, necessità e possibilità. Sopravvissuta al perentorio ridimensionamento argomentativo aristotelico e al correlativo confinamento kantiano a logica della parvenza, la dialettica diviene nelle mani di Hegel sinonimo di filosofia e di critica: esprime la verità della contraddizione, mostrando il lato finito di ogni determinatezza, isolamento, irrigidimento dell’intelletto. La dialettica diventa così una connessione che dissolve le fissità irrigidite e un’opposizione che unisce, integra e arricchisce: è il farsi stesso del concetto, e quindi del significare in quanto tale. Rifiutando – e confutando – i pensieri già dati, prefissati, scontati, imposti, conclusi, producendo il rovesciamento nell’opposto, essa recupera l’originaria matrice socratica, ironica, e coincide perciò con la critica, con la scoperta della potenza dell’opposizione e della logica della contraddizione. Nel suo togliere l’opposizione (aufheben) la dialettica rivela il senso stesso dello stare in opposizione, e rivelando l’oltre dell’opporsi, dischiude nuove possibilità, nuovi significati,  o forse saturandoli indebitamente, nella pretesa di riportare tutte le contraddizioni a un Senso, a una Forma Assoluta del reale, cioè all’Idea (v. Antidialettica).

Anti-dialettica. La pretesa della dialettica di saturare l’intero campo del significare (tanto in senso logico-concettuale che in senso esistenziale) suscita la protesta di chi in essa vede il trionfo del soggetto (forma assoluta del reale, concetto, idea) e della volontà di dominio propria della coscienza filosofica, sempre pronta a far indossare al reale e all’individuo concretamente esistente gli stivali spagnoli della costrizione logica. Schelling, Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche – i padri del pensiero contemporaneo – contestano tutti a Hegel la pretesa che il movimento del concetto possa essere al tempo stesso movimento del reale o – che è lo stesso – che il reale possa essere compreso logicamente. Il soggetto torna a inabissarsi in se stesso, l’oggetto si dissolve, si frammenta, si pluralizza (e così la verità). Vera maieuta del pensiero contemporaneo, l’antidialettica viene fatta propria poi da Heidegger e dalle correnti esistenzialistiche, fenomenologiche, neoscolastiche e postmoderne. L’antidialettica esprime l’arresto della volontà di trasformazione e di critica propria della seconda modernità, il trionfo del pensiero tragico e del carattere intrascendibile dell’esistente, compreso ormai soltanto nella sua irredimibile finitudine. Ma essa manifesta, al tempo stesso, tanto l’autocostrizione del pensiero, quanto l’insofferenza per questa stessa autocostrizione – espressa dalla proliferazione di filosofemi su alterità, eventi, trascendenze –  il non possumus della filosofia sgomenta della propria stessa potenza critica.

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Una prospettiva sul futuro è indispensabile per chiunque.

Perchè è esigenza vitale, certo, stare nel qui e ora; ma anche starci, pure, secondo una prospettiva che sia apertura. Varco quindi dove possa annidarsi e prendere slancio qualche progettualità perchè nella dinamica strutturale dell’esistenza ci sta che nell’attimo sia essenziale anche dislocarsi verso altro che abbia, una volta sopravvenuto, il sigillo del proprio e del sè, articolando in tal modo il respiro necessario per dare ritmo e senso alla propria biografia.

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Ma quali sono mai, quali possono essere mai, questo senso e questo ritmo oggi per tanti giovani (o anche non più proprio tanto giovani) se la loro condizione lavorativa – ma insieme e prima di tutto sociale – è, come spesso è, quella della precarietà o della ragionevole aspettativa di lunghi periodi di precarietà? Che senso può cioè avere – al di là della pur importante necessità di impiegare comunque il tempo in qualcosa che si presume possa prima o poi rivelarsi esser stato utile fare –  impegnare energie e aspettative, per esempio, nelle fatiche, le spese e le difficoltà dello studio universitario? Investendo cioè, diciamolo chiaro, in un progetto di sè che rischia di non realizzarsi mai o magari non nel tempo che sarebbe dovuto e opportuno.

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Se poi, in questo contesto generale, gli studi universitari che vengono scelti, intrapresi, quando tutto va bene conclusi, sono quelli di filosofia, mi si impongono riflessioni che – in quanto insegnante di filosofia nei Licei – mi è difficile eludere.

Il fatto è che spesso ragazze e ragazzi mi chiedono consiglio sul che fare da grandi (o anche solo dopo l’esame di maturità). Per cui mi trovo a considerare non solo circa la questione (di certo anche – perchè no - filosofica) del senso di una eventuale vita da precario; ma (posto che in fondo a me quasi sempre, nello specifico, si chiede se sia il caso di intraprendere studi attinenti in qualche modo al filosofico, e quali prospettive future essi aprano) anche al senso della filosofia (e dello studiarla) nell'”epoca del precariato”.

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Insomma: è che mi ritrovo, per lo meno, banalmente spesso col problema di dare l’indicazione più opportuna a chi – tra i miei studenti e studentesse – mi chiede consiglio circa la loro futura scelta universitaria, valutando i possibili sbocchi lavorativi che ciò possa comportare e tenuto conto che i loro interessi sono talvolta rivolti pure alla filosofia.

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“Né stupire né edificare. Parlando ai giovani bisognerebbe innanzitutto predisporsi all’ascolto della loro voce, capire le loro aspettative, le loro speranze, i loro sogni. Guidare e far vedere, insegnare a osservare e a esporre le proprie idee, abituare al dialogo civile e democratico: ecco il compito del bravo insegnante.”

Così parlano coloro che credono di aver colto – con una “pedagogia del sorriso luccicante” – il punto cruciale della difficoltà di parlare ai giovani. Ipostatizzano psicologisticamente un’età, ritengono che i giovani (così come gli insegnanti) siano tutti uguali, una sorta di classe sociale, un aggregato omogeneo di menti e idee, e sono molto rapidi a scaricare il fallimento della cultura su coloro che istituzionalmente dovrebbero amministrarla per conto dello stato. In realtà l’incapacità di apprendere proprio quel che più conta è simmetrica, se non funzionale in senso sociologico, all’impossibilità di uscire dallo stato di cose esistente. Quello che alcuni opinionisti lamentano, la sorprendente frequenza dei deficit cognitivi, l’analfabetismo emozionale e non (anche adulto), l’imperscrutabilità e liquidità come tratti costitutivi dell’identità giovanile, sono altrettante conferme dell’assimilazione compiuta del modello culturale prevalente. L’io è debole perché è la società che lo vuole tale. La società autoritaria e colonialistica dell’Ottocento produceva in sovrabbondanza il Super-Io e un’ottima letteratura onirica sui tentativi di trascendere tale spazio censorio, da Maupassant a Schnitzler, da D’Annunzio a Svevo e Kafka. Il principio di piacere raggiungeva la massima realtà proprio negando il principio di realtà. La società democratica e repressiva ha liberato l’Io dalla censura moralistica, ma ha creato una forma di autocensura, di denuncia palese dei propri limiti e contraddizioni, un autodafé e un’autocritica permanente: l’elenco è lungo (Pasolini, Beckett, Gide, Canetti…). Una simile società ha bisogno di esternare, è scandalistica e scandalosa nella sua quintessenza: non ha, per definizione, pudore, né vergogna. Non si vergogna di esibire le proprie debolezze, ma le esibisce ripetutamente, come se fossero una virtù e cancellando così definitivamente valori come responsabilità, integrità morale, trasparenza, correttezza. Anzi, l’integrità morale, la serietà calvinista di weberiana memoria, è ormai considerata la virtù degli imbecilli, trasparenza e correttezza sono l’imprimatur degli ingenui e dei citrulli. Che la lealtà sia in generale disdegnata è la prima cosa che si impara, spesso a proprie spese, in una qualsiasi esperienza lavorativa, da quella di fattorino a quella del prof da liceo (indegno erede del professor Unrat), illustre cattedratico o magistrato. “Capitano, lei è un presuntuoso perché vuole conoscere la verità”, dicevano i mafiosi al capitano Bellodi di Il giorno della civetta. Se la società fosse coerente, richiederebbe ai suoi impiegati colti di insegnare ai ragazzi un utilitarismo pragmatico e un relativismo etico ed ermeneutico-teoretico programmatico. Solo così, magari, precipitando nel paradosso di un’assoluta relativizzazione, di un’indifferenza indifferente anche a se stessa, si potrebbe tornare a proporre modelli pedagogici, azioni e filosofie educative, senza addolcire l’orrore: “La filosofia deve prendere le mosse non già dalla meraviglia, bensì dall’orrore. Chi non è in grado di suscitare l’orrore, è pregato di lasciare in pace le questioni pedagogiche” (Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole).

Letture consigliate:

Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Adelphi, Milano 2002.

Heinrich Mann, Il professor Unrat, Mondadori, Milano 1997.

Theodor W. Adorno, Teoria della Halbbildung, a cura di G. Sola, il Nuovo Melangolo, Genova 2010.

Id., Tabù sulla professione dell’insegnante, in Parole chiave. Modelli critici, Sugar, Milano 1974, pp. 95-117.

Konrad P. Liessmann, Theorie der Unbildung, Zsolnay, Wien 2006.

Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.

Marco Belpoliti, Senza vergogna, Guanda, Milano 2010.

Friedrich Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1975.

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 “Nessun uomo può rivelarvi nulla, se non quello che già sonnecchia nell’alba della vostra conoscenza”  (Gibran)

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Anche se usare, nel linguaggio quotidiano, il termine “maestro” attribuendolo a qualcuno che abbiamo conosciuto e che ha contribuito in modo decisivo (e positivo) alla nostra formazione è certamente assai poco in uso – tanto da poter suonare, nei rapporti tra le persone, quasi un po’ ridicolo – tuttavia tutti abbiamo avuto dei maestri.

Io, per lo meno, ho avuto maestri: persone che mi hanno insegnato cose per me importanti e decisive. Maestri che sono stati tali in molti diversi modi. Alcuni conosciuti personalmente, e magari intensamente, in un dialogo condiviso; altri soltanto ascoltati parlare, o letti, o intravisti da lontano. Tra questi annovero senz’altro quelli che mi hanno avvicinato e introdotto nella filosofia che mi ha sedotto. Ma anche altre persone mi hanno ammaestrato, più genericamente, semplicemente alla vita. Persone che magari sono state anche soltanto degli esempi, dei modelli. Spesso persone vicine nella vita di ogni giorno che mi hanno insegnato ad affrontare situazioni problemi difficoltà gioie e dolori, dandomi orientamento e radicamento nella terra.

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