Violare qualcosa è intaccarne l’integrità.
Ma perchè un atto possa essere considerato violento non basta esso sia una violazione di tal tipo. Violento esso lo è solo quando sia anche in qualche modo relato a una volontà (e la natura può essere quindi considerata violenta solo in senso metaforico. Può essere infatti davvero considerata violenza l’uccisione della preda nel mondo animale, o l’ingestione di un vegetale da parte di erbivoro? O qualsiasi altro evento naturale?)
Violenza è quindi perciò sempre un intenzionale intaccare qualcosa che non ha in sé la natura cui la violenza vuole portarlo. Violenza è perciò innanzitutto un volere che altro sia diverso da ciò che è.
(Ma peraltro nulla può esser diverso da ciò che è. Per cui può violenza ottenere quanto vuole?).
Ma pur essendo quindi quello di violenza concetto, come sopra definito, molto generale (troppo? In ogni caso il concetto proposto mi pare tutt’altro che banale) la violenza ha tuttavia gradi diversi e modi diversi che vanno distinti e mai messi sullo stesso piano (si può infatti e perciò sempre pur scegliere il male, nel senso pure solamente fisiologico, minore e che la violenza sia maggiore o minore non è per nulla indifferente).
Tuttavia essa ha perciò quindi molteplici forme e maniere, per cui molto di ciò che faccio o incontro è conseguentemente commisto a violenza. In me, nel mondo, gli altri. La violenza è assai diffusa. Pervasiva, se non onnipervasiva. E tende alla proliferazione. Violenza chiama violenza.
Ma la violenza è anche significativa, sempre. Cioè allude a un significato. È un segno, una traccia, un sintomo.
É considerabile perciò anche un timbro, una nota. Nel senso anche che esprime (significa) sempre non accordo (pure nel senso musicale del termine): è stonatura. C’è quindi violenza (anche) ogniqualvolta si dia stonatura in una relazione o nel cuore. Anche perciò, e a maggior ragione, ce n’è tanta e forse in ogni situazione e storia è pure inevitabile.
Nella misura quindi in cui sono o siamo spesso violenti, stoniamo spesso. Ma sapere questo non è solo autosvalutativo. Anzi è piuttosto prerequisito indispensabile per poter far eventualmente diminuire la volontà di forzatura, oserei dire la tracotanza (per esempio della certezza di fare bene e il bene).
La violenza è dunque (e perlomeno è anche) un cattivo (non solo in senso morale, ma anche nel senso di mal riuscito) modo di volere, che implica cattivo modo di vedere (senza con ciò essere riduttivi perché è modo di vedere che quasi mai si limita a essere tale, ma evoca le realtà che sono violenza nella carne). É non rispetto (se rispetto vuol dire relazione nella giusta – armonica – vicinanza che è anche giusta distanza).
Ma cattivo modo di vedere le cose la violenza lo è anche nel senso che, se tutto è per davvero – come è – soltanto ciò che è, ogni violenza è quindi anche errata valutazione nell’illusione del volere l’impossibile violazione dell’altro (c’è infatti qualcosa di inscalfibile in tutto, che al fondo consente per esempio la sopportazione di spettacoli emotivi orribilmente dolorosi).
Per complicare il discorso: peraltro se c’è un’armonia del tutto, la violenza ne è dunque parte e vi contribuisce. Inoltre la violenza può essere pure commista a piacere e, nel complesso di una struttura, pure costituirne momento di una pienezza.
Può persino essere, e anzi lo è spesso (vedi l’arte), bellezza.
Infine anche opporsi ad essa (che sembra l’unico modo efficace di contrastarla) è pure violenza (nel senso del far violenza alla violenza, il quale in fondo forse la violenza non la annulla ma la raddoppia). Ma poichè dunque la nostra volontà si dà come violenza, essendo sempre essa violenza costante nostra potenzialità o realtà interna, non esprimerla di per sé non la elimina. Essa preme comunque, altrove. Magari più incontrollata.
Non resta perciò che accoglierla, ma magari ironicamente, così distanziandovicisi. Diluendola e magari riuscendo a renderla così persino bella e piacevole. Fino a renderla innocua magari; persino gravida di relazione profonda, capace di entrare – “disinnescata” – nel gioco della comunicazione veramente profonda.
Ma essa è e resta il negativo.
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Perché ciò tuttavia sia ribadito ed essa sia perciò concepibile tale, va rinvenuto criterio che consenta il riconoscimento del valore positivo o negativo delle situazioni.
Un criterio che in ultima analisi deve essere immediato, cioè collocato su un piano innanzitutto fenomenologico, perché ogni mediazione discorsiva e ogni discorso fondativo o giustificativo devono comunque prendere le mosse da e attestarsi (rimandare a, confrontarsi con) su un’evidenza immediata. E soprattutto in questo caso, perché è sempre e solo in relazione a un rimando al dato del vivere immediato, che concretamente e per davvero la violenza e il male (come il bene) sono quel che sono.
Un criterio che sia così criterio di senso, in entrambi i modi possibili in cui il “di senso” può essere inteso. Ossia un criterio che stabilisca cioè il senso (nel senso del significato e il valore) non solo di ciò che è violenza o non violenza; ma anche di ciò che, in relazione a ciò, è bene o male. E insieme, (ed è questo il secondo modo del senso di cui sopra) un criterio che deve fondarsi nell’immediatezza del sentire.
A questo livello perciò si tratta di riflettere sul significato di “sentire male”. Sull’evidenza di sentire male.
Perchè violenza c’è quando c’è sentire male.
Bene è invece l’essere. L’esser sé, che è accordo con sé e in sé. Per cui, quando c’è, ci si sente bene. Si sente bene. Si sente il bene. E se c’è violenza invece si sente male. Male fisico, male morale, male che dir si voglia, si soffre quando si sente di subire violenza. Chi subisce violenza sente male. Questo è il segno, irriducibile, della violenza.
Ma anche chi agisce violentemente sente male. Nel senso che il suo sentire non sente le cose che davvero sono quel che sono. Nel senso che pensa, (lo pensa davvero nel pensiero incarnato che è l’agire concreto, effettivo, al di là di quel che si dice o di quel che magari si crede di pensare) che l’atto violento sia in realtà, sia in fondo, bene. Per cui il suo è innanzitutto un difetto nel riuscire a sentire cosa sia bene, cosa sia il bene. E il violento è quindi come uno che vede credendo di vedere bene e il bene, ma con un difetto di vista.
Ed è così che in effetti la base fenomenologica nel sentire, in quanto capace di porla come il male, può consentire di fondare la necessità del rifiuto della violenza. In un modo analogo a come una base percettiva fonda pure la necessità di dover riconoscere che il muro bianco è bianco, anche se qualcuno, mentendo o per qualche difetto percettivo, lo dicesse nero.
Ma anche qualora non mi si concedesse che il muro bianco è bianco, poco male. Il muro bianco è solo un esempio per dire, a livello percettivo, anche a livello percettivo. che violenza è volere che quanto è sia altro da sé. In un sentire dunque che è sempre anche insieme e prima di tutto sentire male. Da un lato quel sentirsi male, sempre anche un po’male, che ci costituisce; e insieme quel capirne poco e capirci poco che ci costituisce nel mentre esercitiamo il nostro agire secondo un volere che, eterogenesi dei fini, mai riesce a ottenere davvero quanto vuole; né forse a volere quanto, se davvero sentissimo bene, vedremmo che è, e perciò è da volere (perchè è bene e perciò da volere).
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