Tito Perlini nasce a Trieste nel 1931. Conclusi gli studi ginnasiali, si iscrive alla facoltà di Lettere moderne dell’Università di Trieste, dove si laurea alla fine degli anni Cinquanta con una tesi sul Doktor Faustus di Thomas Mann. Dopo aver lavorato in azienda (come Ottieri e Volponi), nel mondo dell’editoria e della pubblicità (come Bianciardi), approda all’insegnamento liceale e solo negli anni Ottanta ottiene l’associazione a Ca’ Foscari per la cattedra di Estetica, mantenuta fino al 2001.
Le sue principali monografie si collocano fra la metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta: Che cosa ha veramente detto Kierkegaard, Che cosa ha veramente detto Marcuse e Utopia e prospettiva in György Lukács, tutti pubblicati nel 1968; Che cosa ha veramente detto Adorno e Lenin. La vita il pensiero i testi esemplari (1971) e Gramsci e il gramscismo (1974). Ma questi saggi, ormai introvabili, costituiscono solo una piccola parte dell’enorme attività pubblicistica di Perlini, condotta, oltre che su riviste specialistiche, anche su quotidiani (il manifesto, Il Secolo XIX) e vari settimanali.
Un semplice elenco delle sue amicizie delinea un quadro nitido della sua natura vitale e poliedrica, sperimentale ma sempre attenta alle trasformazioni dello Zeitgeist. Arduino Agnelli, Claudio Magris, Cesare Cases, Furio Jesi, Edoarda Masi, Giovanni Raboni, Ferruccio Rossi Landi, Elvio Fachinelli, Franco Fornari e, soprattutto, Franco Fortini mostrano la sua entusiastica adesione a una concezione non irregimentata e non settoriale della cultura e dell’impegno intellettuale. Spaziando dalla letteratura al cinema, dalla psicoanalisi alla musicologia, Perlini giunge infine la filosofia grazie soprattutto all’esistenzialismo di Pareyson e di Paci.
L’incontro con il marxismo, la psicoanalisi e la Scuola di Francoforte fa inclinare i suoi interessi sempre di più verso la filosofia. Dopo i saggi dedicati a Lukács, comincia un progressivo distacco dalle tesi del pensatore ungherese sotto il segno della teoria critica di Adorno, Horkheimer, Benjamin, Marcuse e del pensiero utopico di Ernst Bloch. Per la rivista “Comunità” è fra i primi traduttori italiani di Habermas (“Odissea della ragione nella natura”, la sua unica traduzione); per la casa editrice romana Ubaldini introduce a un più vasto pubblico italiano il pensiero di Adorno, Marcuse e Lenin. Contemporaneamente intensifica l’impegno politico con la sinistra radicale, sia con appassionati interventi pubblici, sia attraverso la frequentazione del circolo psiconalitico di Fachinelli “L’Erba Voglio”.
Il pensiero di Tito Perlini oscilla fra una partecipazione all’effettività, alla Wirklichkeit, e la tensione a quell’altro dall’esistente, a quella horkheimeriana «nostalgia del totalmente altro» (o, blochianamente, del “non-ancora”) senza la quale ogni sguardo rivolto all’esistente si sfrangia e perde ogni verità.
Non a caso la sua interpretazione della teoria critica francofortese ha valorizzato soprattutto il lato utopico e messianico delle istanze contenute nel vasto e articolato corpus francofortese. Utopia contra lógos, si potrebbe forse riassumere, citando uno dei suoi numerosi saggi dedicati ad Adorno. Ed è il pensatore di Francoforte colui che maggiormente sembra incarnare l’ideale di filosofia di Perlini: non tanto per il suo negativismo dialettico, quanto piuttosto per aver colto la necessità di ripensare le possibilità dell’individuale e soprattutto dell’estetica nell’epoca della loro liquidazione. La teoria critica di Adorno è dunque impulso etico e utopico che si esprime al massimo grado nella coscienza inconciliata dell’arte, nella resistenza al reale tanto nelle opere di Joyce, Kafka e Beckett, quanto nell’arte al nero di Malevič e nella musica atonale di Berg. La conciliazione non può essere estorta o forzata, come voleva ancora il Lukács teorico del realismo. La ragione, nel mondo amministrato e accecato, dominato dalla razionalità strumentale, non può che criticare spietatamente se stessa, non già pretendere di fungere da istanza armonizzante e conciliatrice.
Per mantenere quella tensione tra effettività e alterità diviene allora in qualche modo necessario guardare anche oltre la tradizione della teoria critica che sembra avvitarsi in «una teoria rivoluzionaria senza prassi rivoluzionaria», un congedo dalla mera teoresi «incapace di congedarsi da se stesso», come sottolineerà Perlini negli ultimi saggi dedicati alla Scuola di Francoforte. Benché si tratti di tesi esposte anche da Krahl e dal giovane Habermas, la strada che intraprenderà Perlini per uscire da quelle che ormai giudica le insuperabili aporie del pensiero critico-negativo sarà del tutto diversa. Avvicinatosi alle posizioni antimoderne di Augusto Del Noce, Perlini tenterà, da laico, un confronto e una riappropriazione della tradizione religiosa e metafisica nell’epoca del postmoderno, della ragione cinica e del relativismo, riavvicinandosi, in un periplo compiuto, alle “considerazioni impolitiche” del suo amatissimo Thomas Mann.
Per me Perlini non è stato solo un docente, il correlatore della mia tesi di laurea in filosofia nel lontano 1994: è stato un amico, un maestro e un pioniere di nuovi percorsi intellettuali. La sua umanità debordante e trascinante, mite e spassosa, era sempre in grado di sorprendermi e di farmi pensare, ridere, sussultare, qualche volta intimidendomi ma più spesso sollecitandomi ad andare oltre, comunque sempre incitandomi a riflettere attentamente sulle sue parole, finanche sulle sue manie, sulle sue fissazioni, anche e soprattutto quando non ero d’accordo con lui e la sua fragorosa radicalità. Nel suo pensiero, infatti, ho sempre ritrovato un vigore e una passione d’altri tempi, da gentiluomo e intellettuale mitteleuropeo finemente altmödisch, forse vicino allo spirito dei Kulturkritiker ma al tempo stesso anche capace di tenere bene a distanza, senza peraltro temerli, i loro esiti più deleteri. Nel suo eloquio torrenziale ma piacevolissimo, nelle sue impuntature solenni, nei suoi capricci improvvisi qualcuno ha detto che si scatenavano i suoi “demoni metafisici” che talvolta lo (ci) prendevano alla sprovvista: più semplicemente io vi ho sempre visto quella passione intellettuale e morale che ormai manca a un mondo divenuto felicemente amministrato e altrettanto allegramente alienato. Non credo sia possibile confinare e “concludere” Tito Perlini in qualche elegante e accomodante definizione. Non credo nemmeno sia possibile scrivere un saggio sul suo pensiero, tale era la sua singolarità esistenziale da corrispondere davvero a “quel singolo” di cui parla Kierkegaard. Il suo pathos inesauribile, enciclopedico, talvolta polemico ma soprattutto etico-utopico, resta per me una lezione di vita e non mera dottrina accademica.
Articolo di Claudio Magris apparso sul “Corriere della Sera” del 27 settembre
Articolo di Annalisa Perini apparso su “Il Piccolo” di Trieste del 27 settembre
Articolo di Roberto Timossi apparso su “Avvenire” del 28 settembre
Mi piace, se mi è concesso, affiancarmi ad Alessandro Bellan nel doveroso ricordo di un pensatore rigoroso, riluttante alla provvisorietà delle mode filosofiche, un intellettuale critico e soprattutto – come usa dire – ”a tutto tondo”. Non è mia intenzione indulgere nella celebrazione (meritata) – altri hanno saputo fare in questi giorni meglio di quanto potrei fare io – quanto piuttosto evocarne brevemente la figura umana ed intellettuale alla luce dei corsi accademici da me seguiti e degli esami (due) con lui sostenuti; oltre che averlo avuto quale membro di commissione d’esame di laurea, in cui presentavo e discutevo un lavoro, sotto la direzione di Mario Ruggenini, sul cosiddetto ”secondo” Heidegger, autore che Tito Perlini vedeva, sostanzialmente, come il fumo negli occhi. Ma di là da questi piccoli squarci della mia personale memoria, va detto che non si poteva non restare catturati dalla vastità della sua cultura (non solamente filosofica), dalla straordinaria capacità di legare il passato al presente, spesso in modo molto sottile ed arguto, dall’uso quasi stratosferico di un linguaggio elevatissimo (all’orecchio di alcuni poteva forse suonare quasi vetusto) che lo rendeva, come giustamente ha osservato Mario Ruggenini in occasione di un libro a Perlini dedicato in occasione della conclusione della sua attività accademica, un retore della parola, un uomo che aveva la passione della parola. Dove l’uso alto della parola non è mai stato nel suo caso esercizio autoreferenziale e accademicamente fine a se stesso, ma possibilità di apririsi al dialogo con l’altro, alla comunicazione, testimonianza molto umana di rispetto nei confronti degli interlocutori (studenti o colleghi). Il suo studio a Ca’ Nani Mocenigo (che condivideva con altri docenti) si trasformava durante gli esami (ma immagino anche a prescindere da essi) in una sorta di luogo fumosissimo ed asfissiante, dove il malcapitato esaminando di turno, sempre un po’ intimidito dalla personalità straripante di Tito Perlini, si vedeva quasi sempre e cortesemente offrire una sigaretta. Non erano più esami ma lunghe, amabili, interminabili (mai meno di un’ora) conversazioni che spaziavano dallo Storicismo tedesco, al ‘bello e sublime’ in Kant, dall’amato Lukàcs all’estetica hegeliana. Avrei sempre voluto ricontattarlo o anche ascoltarlo ancora una volta in una conferenza pubblica, ma ciò non è stato possibile. Lascia però molto: i suoi volumi, i suoi saggi, i suoi articoli, i suoi pubblici interventi e soprattutto un’altissima testimonianza di intelligenza e di umanità.
Leggendo il commento di Massimo mi è tornato in mente quanto Perlini aveva scritto in un saggio del 1970 intitolato “Infanzia e felicità in Adorno”: “La filosofia, in lui, esercitandosi, mira incessantemente a contestare se stessa. Egli oscilla tra la mitezza dell’arte e la doverosa durezza della filosofia, in un moto alterno, senza mai placarsi definitivamente in uno dei due poli”. Ciò che veniva allora detto di Adorno forse era un autoritratto di Perlini stesso. Anche in lui la filosofia contestava se stessa, fra la tentazione dell’estetico e l’incontrovertibile dello speculativo. Ma in questa tensione essa viveva, parlava, non era più mera dottrina autocelebrantesi né pura suggestione sensibile. Forse la filosofia vive, rivive e rinasce sempre e solo in chi è capace di suscitare tensioni come queste.
Volevo ritornare per un solo e breve momento sulla poderosa capacità evocativa che dell’uso del linguaggio faceva Tito Perlini. Il suo celebre volume su Lukàcs è paradossalmente – ma davvero paradossalmente- quasi più prezioso e ricco di informazioni nella sezione dedicata alle note critiche ed all’apparato bibliografico che non alla parte testuale come tale, comunque organica, precisa, abbondantemente dettagliata. Un solo, minimo esempio di questo linguaggio alto ed insieme perfettamente capace di esaurire linguisticamente una situazione la si trova a pag. 431 del volume di Perlini alla nota 163 che prosegue (tipico dello stile torrenziale dell’Autore) per ben due facciate. Qui vien detto: ”Una posizione fortemente critica nei riguardi della sociologia di Adorno e Horkheimer ha assunto Franco Ferrarotti (passim). Alcune delle critiche mosse da Ferrarotti ai due Autori presi in esame sono plausibili, ma la curvatura generale del discorso e soprattutto il tono di accigliata deplorazione non ci sembrano accettabili”. Nell’espressione ”accigliata deplorazione” c’è tutto Tito Perlini.
[…] gravi perdite per la cultura italiana, nomi legati a virtù etiche di altri tempi: se la vita di Tito Perlini è stata inquieta esplorazione filosofica della possibilità di andare oltre l’esistente e […]
[…] Piccolo» di Trieste del 27 settembre), di Roberto Timossi («Avvenire» del 28 settembre), e di Alessandro Bellan […]