In un elzeviro apparso il 31 luglio 2011 sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore, Sebastiano Maffettone riprendeva la diagnosi pasoliniana riguardante il centralismo della società dei consumi. Secondo Pasolini questo tipo di centralismo, ben più del centralismo fascista, aveva rinnegato i modelli culturali reali, ovvero i modelli che afferivano a forme di vita non più in grado, ormai, di resistere a una modernizzazione unidimensionale. Se con Maffettone riattualizziamo l’analisi pasoliniana, troviamo che il centralismo consumistico ha finito per rendere problematico nientemeno che il rapporto tra l’io e il mondo, non solo quello intercorrente tra un modello dominante di cultura e tutti gli altri in esso assorbiti.
Il rapporto tra l’io e il mondo è ormai gravemente scisso anche perché, come scrive Maffettone, negli ultimi venti, trenta anni si è aperto per gli individui un universo di libertà fino a prima impensabile. Riprendendo Alain Ehrenberg (La fatica di essere se stessi. Società e depressione, Einaudi, 1999), il passaggio da una società incentrata sull’autorità della tradizione, a una società in cui l’unico imperativo possibile è quello della responsabilità, ha proiettato gli uomini, le famiglie, i gruppi, anche le imprese, verso l’assunzione di responsabilità largamente irricevibili. I possibili senza argini, i sogni senza bordi, hanno conferito al rapporto tra l’io e il mondo una torsione patologica, che potremmo definire psicotica. Vi sono almeno tre indici di questo fenomeno nell’attualità, rilevabili da tre distinti osservatori del tempo odierno, che meriterebbero delle analisi altrettanto separate, nella misura in cui concorrono tutti a definire il venire meno dell’oggettività, della forza di gravità del reale.
Il primo indice riguarda il dilemma amletico del realismo in cui si dibatte la narrativa italiana contemporanea, cui pare mancare quella prova dell’esperienza che aveva formato gli scrittori del secondo dopoguerra e gli accesi idealisti del ’68 (di rilievo in tal senso è la disamina di Daniele Giglioli, Senza trauma, Quodlibet, 2011). Il secondo è riconducibile allo strumentale svuotamento di contenuto del linguaggio pubblico e politico, così caratteristico del secondo ventennio italiano ormai a conclusione (su questo punto si può leggere l’indagine di Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale, Einaudi, 2010). Il terzo indice è appunto la psicoticizzazione – più che la finanziarizzazione – dell’economia, tramite la quale il sistema finanziario ingegnerizzato – quale braccio armato del neoliberismo selvaggio – è riuscito a scompensare anche un settore, come l’immobiliare, che fino a ieri era tradizionale ricovero dei beni rifugio. La finanza si è dunque svelata come il cattivo pensiero dell’economia, come la ritorta speculazione di un general intellect tanto avido e insieme ingenuo da risultare cieco, de-realizzante.
Da un certo punto di vista, queste problematiche sono connaturate alla società post-fordista, ovvero a un’idea di comunità per la quale non valgono più i vecchi mattoni che la tenevano insieme un tempo. Questi sono stati sostituiti dalle idee, dal linguaggio, dal capitale cognitivo dei lavoratori, dal commercio di servizi immateriali. In ciò, tuttavia, non v’è un buon argomento per rinunciare all’attrito salvifico tra l’io e il mondo, né per abdicare all’istanza critica e di giudizio del pensiero. Anche il fatto che nelle società post-fordiste (post-industriali) abbia trionfato il lavoro immateriale, oltre a un individualismo anti-sociale e senza comunità, è un dato parziale, che risente a sua volta di una mai esplicita e mai confessata ideologia della s-materializzazione a tutti i costi.
Come emerso infatti nelle scorse settimane anche dalle colonne de Linkiesta – sulla scia di quanto dibattuto sull’Economist – la manifattura e l’industria non sono da consegnare alla rottamazione archeologica di un passato inutilizzabile. Anzi, il ridursi del gap tra i costi del lavoro e della produzione negli USA e quelli in Cina (così sostiene uno studio del Boston Consulting Group, almeno per quanto riguarda un certo tipo di produzione non destinato ai mercati asiatici), indica già quale sia la strada del futuro, tanto per gli USA quanto per Paesi come il nostro (in tal senso si è espresso Romano Prodi). La manifattura dovrebbe pertanto, realisticamente, tornare ad assumere un suo peso specifico, capace di riportare con i piedi per terra, nel mondo, un io al momento estremamente spaesato, divorato da una società dei consumi, che Margaret Thatcher e Ronald Reagan, per primi, hanno contrabbandato come una società di individui emancipati.
L’io di ciascuno, in altri termini, ha ora, in virtù della crisi planetaria, l’opportunità di tornare a fare presa su di un mondo che alla fine ha presentato il conto della sua stessa rimozione.
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