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Posts Tagged ‘rimozione’

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images (1)Per Freud dunque quanto neghiamo – se la negazione è tale, cioè negazione di qualcosa – non può esserci totalmente altro. In questo senso, non può esserci ignoto.

Ma non solo non ci è ignoto. Non ci è nemmeno indifferente. Non ci è cioè insignificante affettivamente. E non può essercelo, perché nulla di quanto viviamo ci è per davvero, per Freud, affettivamente estraneo. Non lo è perciò nemmeno quanto neghiamo. Non lo è nemmeno quando neghiamo che qualcosa ci appartenga o coinvolga. Anche quanto neghiamo contiene sempre infatti un nucleo affettivo che – per quanto possa essere sordo, attutito o rimosso –  ci tocca. Quando la negazione nega qualcosa, quindi, riconosce innanzitutto il significato, affettivamente investito, che viene negato. Tale significato non ci è dunque ignoto e ci tocca.

Tuttavia, quando tale significato è negato, la relazione con esso non si limita a questi riconoscimento e coinvolgimento affettivo. Il significato negato viene sì riconosciuto, ma insieme viene, appunto, negato. Cioè tale significato lo teniamo dinanzi. Ma non vi aderiamo. Tanto più quanto più la negazione è rivolta a cosa che può riguardarci davvero – e quindi è avvolta da adeguate intensità e forza emotive – tale significato, negandolo, quindi lo distanziamo. Cioè, con gesto logico ma anche affettivamente innervato, ce ne dissociamo.

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Continuamente siamo attraversati, o sprofondati, nello spettacolo che si squaderna in noi, attorno a noi, di fronte a noi. Ma questo spettacolo non è solo e semplicemente contemplato, osservato. E’ sempre pure innervato da tonalità affettive ed emotive che non solo si accompagnano ad esso, ma lo impregnano rendendolo in tal modo assolutamente, esclusivamente e innegabilmente nostro: il nostro vissuto.

In questo senso noi siamo mondo. Pienamente mondo, vivo di emozioni. Mondo (anche) affettivo.

Mondo inoltre a tutti gli effetti, cioè orizzonte cangiante e vario, come ogni mondo. Mutevole e sempre nuovo, ma purtuttavia strutturato, e in certo qual senso dunque definito (e quindi pure in tal modo in un certo senso chiuso) innanzitutto nella dinamica del gioco di alcune emozioni che più di altre o più a fondo di altre ne innescano le forme e articolano le giunture.

Alcune emozioni si delineano perciò in tal senso come fondamentali. Tra queste particolare pregnanza ha quel plesso emotivo (e semantico) costituito dall’insieme includente ansia, angoscia, paura. E le relative sfumature e sfaccettature di esse, tutte relative comunque a una Cosa che, nelle varie differenze formali e diverse intensità che ne individuano le forme specifiche, è uno dei nostri modi ineludibili di stare nel mondo.

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Ansia, angoscia, paura (con tutte le loro relative sfumature e intensità, anche assai diverse, tanto che nel caso, ad esempio, della paura possono andare dal timore velato al terrore) sono perciò esperienze originarie, fondamentali, direi pure inevitabili. Farne esperienza lascia il segno, un segno che ci accomuna rivelandoci inscalfibili verità (per lo meno il nostro essere esposti all’irrompere di questi sgraditi ospiti, il nostro stare sospesi sempre nella possibilità di un loro avvenire, il rischio di consegnarci inermi ad esse) e ci apre a un’attesa più circospetta.

Ansia, angoscia, paura sono esperienze, inoltre, originarie. Precoci perchè sicuramente anche infantili. E perciò anche costitutive della struttura in cui si dispiega tutta l’esperienza, ossia della struttura in cui consiste l’Autocoscienza.

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Che questa Cosa strutturi profondamente l’Autocoscienza ce lo dice d’altronde anche Hegel, in un luogo cruciale, là dove, nella “Fenomenologia dello Spirito”, descrive (o, forse meglio: costituisce) l’emergere della vera Autocoscienza quale coscienza del servo, nella dinamica per cui il signore si rivela nel suo essere in realtà il “servo del servo“, correlativamente svelando il vero volto e ruolo del servo quale reale “signore del signore“.

Il servo per Hegel è infatti la vera Autocoscienza perchè “tale coscienza non è stata in ansia [hat Angst gehabt] per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell’istante, bensì per l’intera sua essenza; essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. E’ stata, così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sè, e ciò che in essa v’era di fisso ha vacillato. Ma tale puro e universale movimento, tale assoluto fluidificarsi di ogni momento sussistente, è l’essenza semplice dell’autocoscienza, è l’assoluta negatività, il puro esser-per-sè che, dunque, è in quella coscienza” (“Fenomenologia dello spirito”, p.162). Ed è quindi lo stare in ansia (Angst) del servo che, quale paura della morte, va a costituire in tal modo, nell’ambito della dialettica del servo e il signore – accanto agli altri due momenti essenziali del servizio e del lavoro – la coscienza servile come la vera autocoscienza che si staglia nella sua essenza propria (disponibile ora, così strutturata, a tutte le ulteriori peripezie che su di essa si innestano e da essa dipartono).

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In un elzeviro apparso il 31 luglio 2011 sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore, Sebastiano Maffettone riprendeva la diagnosi pasoliniana riguardante il centralismo della società dei consumi. Secondo Pasolini questo tipo di centralismo, ben più del centralismo fascista, aveva rinnegato i modelli culturali reali, ovvero i modelli che afferivano a forme di vita non più in grado, ormai, di resistere a una modernizzazione unidimensionale. Se con Maffettone riattualizziamo l’analisi pasoliniana, troviamo che il centralismo consumistico ha finito per rendere problematico nientemeno che il rapporto tra l’io e il mondo, non solo quello intercorrente tra un modello dominante di cultura e tutti gli altri in esso assorbiti.

Il rapporto tra l’io e il mondo è ormai gravemente scisso anche perché, come scrive Maffettone, negli ultimi venti, trenta anni si è aperto per gli individui un universo di libertà fino a prima impensabile. Riprendendo Alain Ehrenberg (La fatica di essere se stessi. Società e depressione, Einaudi, 1999), il passaggio da una società incentrata sull’autorità della tradizione, a una società in cui l’unico imperativo possibile è quello della responsabilità, ha proiettato gli uomini, le famiglie, i gruppi, anche le imprese, verso l’assunzione di responsabilità largamente irricevibili. I possibili senza argini, i sogni senza bordi, hanno conferito al rapporto tra l’io e il mondo una torsione patologica, che potremmo definire psicotica. Vi sono almeno tre indici di questo fenomeno nell’attualità, rilevabili da tre distinti osservatori del tempo odierno, che meriterebbero delle analisi altrettanto separate, nella misura in cui concorrono tutti a definire il venire meno dell’oggettività, della forza di gravità del reale.

Il primo indice riguarda il dilemma amletico del realismo in cui si dibatte la narrativa italiana contemporanea, cui pare mancare quella prova dell’esperienza che aveva formato gli scrittori del secondo dopoguerra e gli accesi idealisti del ’68 (di rilievo in tal senso è la disamina di Daniele Giglioli, Senza trauma, Quodlibet, 2011).  Il secondo è riconducibile allo strumentale svuotamento di contenuto del linguaggio pubblico e politico, così caratteristico del secondo ventennio italiano ormai a conclusione (su questo punto si può leggere l’indagine di Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale, Einaudi, 2010). Il terzo indice è appunto la psicoticizzazione – più che la finanziarizzazione – dell’economia, tramite la quale il sistema finanziario ingegnerizzato – quale braccio armato del neoliberismo selvaggio – è riuscito a scompensare anche un settore, come l’immobiliare, che fino a ieri era tradizionale ricovero dei beni rifugio. La finanza si è dunque svelata come il cattivo pensiero dell’economia, come la ritorta speculazione di un general intellect tanto avido e insieme ingenuo da risultare cieco, de-realizzante.

Da un certo punto di vista, queste problematiche sono connaturate alla società post-fordista, ovvero a un’idea di comunità per la quale non valgono più i vecchi mattoni che la tenevano insieme un tempo. Questi sono stati sostituiti dalle idee, dal linguaggio, dal capitale cognitivo dei lavoratori, dal commercio di servizi immateriali. In ciò, tuttavia, non v’è un buon argomento per rinunciare all’attrito salvifico tra l’io e il mondo, né per abdicare all’istanza critica e di giudizio del pensiero. Anche il fatto che nelle società post-fordiste (post-industriali) abbia trionfato il lavoro immateriale, oltre a un individualismo anti-sociale e senza comunità, è un dato parziale, che risente a sua volta di una mai esplicita e mai confessata ideologia della s-materializzazione a tutti i costi.

Come emerso infatti nelle scorse settimane anche dalle colonne de Linkiesta – sulla scia di quanto dibattuto sull’Economist – la manifattura e l’industria non sono da consegnare alla rottamazione archeologica di un passato inutilizzabile. Anzi, il ridursi del gap tra i costi del lavoro e della produzione negli USA e quelli in Cina (così sostiene uno studio del Boston Consulting Group, almeno per quanto riguarda un certo tipo di produzione non destinato ai mercati asiatici), indica già quale sia la strada del futuro, tanto per gli USA quanto per Paesi come il nostro (in tal senso si è espresso Romano Prodi). La manifattura dovrebbe pertanto, realisticamente, tornare ad assumere un suo peso specifico, capace di riportare con i piedi per terra, nel mondo, un io al momento estremamente spaesato, divorato da una società dei consumi, che Margaret Thatcher e Ronald Reagan, per primi, hanno contrabbandato come una società di individui emancipati.

L’io di ciascuno, in altri termini, ha ora, in virtù della crisi planetaria, l’opportunità di tornare a fare presa su di un mondo che alla fine ha presentato il conto della sua stessa rimozione.

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“Inconsciamente l’ho sempre saputo”. Oppure: “L’ho fatto inconsciamente”.

O: “Inconsciamente era quello che volevo”….

Quante volte ci capita di dire o pensare frasi come queste! Quante volte, parlando o pensando, facciamo riferimento all’inconscio!

Inconscio. Inconsciamente. Un termine, un avverbio, entrambi di uso comune ormai.

Spesso infatti nel linguaggio comune facciamo appunto riferimento in qualche modo alla dimensione che ormai tutti chiamiamo “l’inconscio”,  dando inoltre per assodato che ci intendiamo su ciò cui ci riferiamo quando usiamo questo termine.

Eppure, anche ad una superficiale considerazione della cosa, balza agli occhi come questo uso linguistico sia ben strano.

Ci diciamo infatti consapevoli – ammettendo che ci sia un inconscio – di essere, almeno in parte oppure anche in gran parte, inconsapevoli. Ma appunto questo dirci inconsapevoli è detto con la consapevolezza di esserlo, e quindi questo dirne sta tutto dentro l’ambito della consapevolezza. A ben pensarci è un dire di essere consapevoli circa cosa che, per come la definiamo, è inconsapevolezza; inconsapevolezza che noi stessi, i coscienti di essa, siamo. Diciamo di essere consci circa un ambito che per definizione è altrove rispetto la luce della coscienza; la quale però, investendolo, in qualche modo lo include in essa. 

Nominando l’inconscio, pensandolo, esso diventa noto, entra a esser parte della luce della coscienza. E come fa quindi ad essere ancora il non-conscio cui ci riferiamo?

Tutto ciò è, appunto, assai strano.

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