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Q

Quando ho esaurito le giustificazioni

arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega

(Ludwig Wittgenstein. Ricerche filosofiche, §217).

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Nel mondo in cui siamo – sempre più digitalizzato, sempre più infosfera, sempre più “social” – l’esposizione di sè in immagine, negli spazi interfacce in cui le informazioni si fissano e circolano (negli schermi cioè dei vari supporti elettronici in cui proponiamo noi stessi), si pone come un valore.

Da questo valore dipende molto del proprio riconoscimento e successo sociale. E ciò tanto più quanto più ad essere esposto è quanto più riteniamo ci individui, cioè tanto più quanto più ad esporsi è qualcosa che proponiamo come quello che siamo davvero. Tanto più dunque quanto più ad esporsi è ciò che più ci distingue nella nostra unicità irriducibile.

Molto spesso riteniamo ciò debba avere a che fare con la nostra intimità. Mostrarsi anche il più possibile senza veli in quei tratti che intendiamo proporre come ciò che per davvero siamo fa perciò parte del gioco cui la comunicazione in immagine (via social, o sul modello proposto da molti dei format televisivi più nazional-popolari) ci invita.

La civiltà dell’immagine – questo ne consegue – ci chiede dunque e ci induce – così parrebbe – ad essere davvero noi stessi e ad esporsi per quel che davvero si è. La civiltà dell’immagine ci chiede dunque – così parrebbe – niente meno che di essere e mostrarci in autenticità.

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Nella dimensione più profonda che sostiene, irradiandovisi, tutta la superficie in cui si espongono le immagini che depositiamo nel mondo, nella dimensione cioè percepita più intima e nostra e dunque più autentica, alcuni momenti sono vissuti quali istanti estatici.

Quando questi momenti si danno, ci si squadernano rivelazioni. Anche certi snodi in certe relazioni si rivelano come tali figure perfette. Questi sono i momenti e le situazioni in cui sentiamo – nel nostro vissuto più proprio – autenticità e per quanto tali momenti siano rari, sono tuttavia tali da fungere quali poli di espansione di senso in tutto quanto fa loro da alone e in ciò in cui si depositano.

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Anche quando – in una relazione tra due persone – una delle due si isola, si allontana o tace (non cerca quindi né vuole più contatto) comunicazione tra i due comunque c’è.

Non si può infatti non comunicare. Chiunque sia in un qualsiasi ambito spaziotemporale con un altro con cui abbia avuto un qualsivoglia incontro che ponga relazione, ha dato infatti avvio con ciò a una storia. Un flusso di informazioni ed interazioni cognitive ed emotive è stato aperto e in questo flusso anche i silenzi e le pause (dovute magari alla normale punteggiatura o evoluzione di un rapporto, oppure a ostilità o a disattenzione, o a che altro) hanno il loro senso.

Anche se non si emette nulla, anche se non si sta scambiando nulla, si sta comunicando. Anche l’assenza di comunicazione tra due poli di una relazione è infatti un ben determinato comportamento che, in quanto tale – nell’essere esposto e perciò decodificato – comunica anch’esso sempre qualcosa (talvolta in modo persino molto più esplicito, sincero e chiaro delle parole).

La relazione in cui la comunicazione ha luogo ha una sintassi, ha un ritmo. Ha una storia e in essa l’assenza di flusso comunicativo ha un senso: il senso che può avere un silenzio o il senso che ha una pausa. Oppure il senso che ha per qualche motivo una distanza, una cesura, un termine.

Si comunica quindi sempre e comunque. Si comunica quando comunicazione c’è. Ma anche quando la comunicazione langue o manca.

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