Di fatto il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna: si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. (…) Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà
Karl Marx, Il Capitale, Libro Terzo, cap. 48
«La caratteristica essenziale del lavoro – quello che noi “abbiamo”, “cerchiamo”, “offriamo” – è di essere un’attività che si svolge nella sfera pubblica, un’attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. È attraverso il lavoro remunerato (e in particolare il lavoro salariato) che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un’esistenza e un’identità sociale (vale a dire una “professione”), siamo inseriti in una rete di relazioni e di scambi in cui ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferiti diritti su di loro in cambio di doveri verso di loro. Proprio perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è il fattore di socializzazione di gran lunga più importante – anche per coloro che lo cercano, vi si preparano o ne sono privi – la società industriale si considera come una “società di lavoratori” e, in quanto tale, si distingue da tutte quelle che l’hanno preceduta…»
«Qualsiasi appropriazione esige “lavoro” (nel senso di ergon, di spesa di energia) e tempo, compresa l’appropriazione del mio stesso corpo. Il lavoro per sé è fondamentalmente ciò che noi dobbiamo fare per prendere possesso di noi stessi e di quella organizzazione degli oggetti che, prolungandoci e riflettendoci come esistenza corporea, costituisce la nostra nicchia all’interno del mondo sensibile: la nostra sfera privata.
Il problema che devono risolvere le società in cui il tempo cessa di essere raro, è dunque all’opposto del modello della “casa elettronica” e del trasferimento a servizi professionalizzati di tutto il lavoro per sé. Si tratta al contrario, di riallargare il campo del lavoro per sé, in virtù del quale le persone appartengono a se stesse, si appartengono reciprocamente nella loro comunità o famiglia, e ciascuno si radica nella materialità sensibile del mondo e ha questo mondo in comune con gli altri».
André Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica [Paris 1988], tr. it. Torino 1992
Spunto interessante. Sto leggendo un libro di Zizek su Hegel attraverso Lacan – estremamente complesso, forse anche perché non ho ancora tutti gli strumenti concettuali che lo agevolerebbero – in cui a un certo punto viene toccato lo stesso problema, nel contesto dell’accusa marxista tradizionale alla dialettica di Hegel di essere un’universalizzazione della mentalità “produttiva” capitalista.
Personalmente, sulla falsariga di quanto ho letto sugli studi del gruppo tedesco Krisis, penso che la vicenda del lavoro come “occupazione” borghese (in tutti i sensi) sia legato a doppio filo al capitalismo medesimo, e che una soluzione della questione non possa prescindere dal riuscire – piano piano – a dare una misura e una rappresentazione finalmente soddisfacenti della sua sempre più probabile crisi. D’altro canto dal lato etico ho sempre trovato seducente proprio l’idea di abbattere la distinzione fra “vita privata” e “lavoro”, perché ritengo che solo in questo modo – finanche se ciò dovesse verificarsi attraverso la completa automatizzazione del “privato” – potrebbe venire in chiaro la domanda di un rovesciamento per il quale sia il privato stesso a divenire pubblico.