Karl Marx – Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto
Brani tratti da Il Capitale. Critica dell’economia politica. libro I, capitolo I, IV (1867)
Propongo qui di seguito alcuni brani (famosi, credo, ma neanche tanto, di questi tempi) che trattano del feticismo delle merci. Nessuno può dubitare della pazzesca attualità della questione ’capitalismo’, con la fantasmagoria delle sue merci da cui siamo imboniti. Se di Marx alcuni aspetti risultano oggi inaccettabili (anzitutto la teoria del valore-lavoro), l’analisi del feticismo risulta ancora straordinariamente attuale.
I brani che seguono sono intervallati da alcuni commenti. Alla fine mi sono lasciato andare a considerazioni più complessive che riflettono la mia personale sensibilità, come fanno del resto anche i commenti precedenti. Il tutto mostra sicuramente la mia ignoranza dell’opera complessiva di Marx e della sterminata letteratura critica sull’argomento. Dixi et salvavi animam meam.
Giuseppe Manildo
A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio, quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare.
A Marx non pare che il valore d’uso delle cose possa risultare altrettanto misterioso quanto il valore di scambio. Eppure Hegel aveva sottolineato che l’utilità di una cosa, ossia la sua capacità di soddisfare dei bisogni, è relativa ai bisogni stessi e che questi si sviluppano del tutto imprevedibilmente dalle interazioni di imitazione reciproca di individui liberi dagli schemi predeterminati della famiglia o di qualsiasi altra comunità naturale. Quanto una cosa possa essere desiderabile e quindi utile, è dunque del tutto impossibile da prevedere, quasi dipendesse – questa sì – dal capriccio di un dio.
[…]
Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi.
Se 1. il valore di scambio di una cosa (ossia la forma che rende merce un qualsiasi prodotto del lavoro umano) consiste nella quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, e se 2. la quantità di lavoro indica quanto di un uomo (operaio) è stato alienato, asservito a quella cosa e a quell’altro uomo che ne è il proprietario (capitalista), allora nel valore di mercato di una merce – ossia nella venerazione che gli acquirenti sentono per essa e in base alla quale, come fossero al cospetto di una piccola o grande divinità, sono disposti a sacrificare (spendere) poco o tanto di sé – gli uomini misurano il rispetto per quel dio cui devono la vita: la struttura sociale stessa, con i suoi rapporti di subordinazione, di oppressione ma anche di tutela.
Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali.
Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi.
Già Hegel aveva visto nella società l’oggettivazione dello spirito. Marx – al contrario – vede nella struttura sociale nient’altro che rapporti materiali “sensibili” che si spacciano per spiritualità “soprasensibile” (trascendente). Del resto, per Hegel, già la realtà sensibile è prodotto della spiritualità e non si dà mai alcun “rapporto fisico di cose fisiche” che non sia già comunque trasfigurato in fantasmagoria.
Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Come l’analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci.
Che il lavoro umano abbia carattere sociale è sempre vero, ad eccezione di casi particolari come quello di Robinson Crusoe, di cui più sotto. Ma ciò non significa che il lavoro debba per forza produrre merci, cioè beni che debbano poi essere scambiati al mercato. Quando però si lavora per vendere, come avviene nell’economia capitalistica, il lavoro è necessariamente alienato e determina un rapporto sociale di potere, cioè di subordinazione di uomini ad altri uomini.
[…]
La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto soli valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell’umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva del carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l’uno dall’altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell’aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l’atmosfera come forma corporea. …
Tali forme costituiscono appunto le categorie dell’economia borghese. Sono forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, per i rapporti di produzione della produzione di merci. Quindi, appena ci rifugiamo in altre forme di produzione, scompare subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci.
L’economia politica classica ha capito che dietro l’oggettività del valore di scambio sta la fatica di soggetti umani concreti. Non ha però saputo mostrare come tale oggettività trascendente sia solo il risultato di una oggettivazione, ossia un feticcio creato in base a condizioni storiche particolari, impensabile in altre epoche e per altre culture. Ora infatti Marx ci mostra come in altre situazioni ed epoche non sia per nulla necessaria l’idolatria delle merci. Si comincia con Robinson Crusoe…
Poiché l’economia politica predilige le robinsonate evochiamo anzitutto Robinson nella sua isola. Sobrio com’è di natura, ha tuttavia bisogni di vario genere da soddisfare, e quindi deve compiere lavori utili di vario genere, deve fare strumenti, fabbricare mobili, addomesticare dei lama, pescare, cacciare, ecc. Qui non parliamo delle preghiere e simili, poiché il nostro Robinson ci prende il suo gusto e considera tali attività come ricreazione. Nonostante la differenza fra le sue funzioni produttive egli sa che esse sono soltanto differenti forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti di lavoro umano. Proprio la necessità lo costringe a distribuire esattamente il proprio tempo fra le sue differenti funzioni. Che l’una prenda più posto, l’altra meno posto nella sua operosità complessiva dipende dalla difficoltà maggiore o minore da superare per raggiungere il desiderato effetto d’utilità. Questo glielo insegna l’esperienza, e il nostro Robinson che ha salvato dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, comincia da buon inglese a tenere la contabilità di se stesso. Il suo inventario contiene un elenco degli oggetti d’uso che possiede, delle diverse operazioni richieste per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di questi diversi prodotti. Tutte le relazioni fra Robinson e le cose che costituiscono la ricchezza che egli stesso s’è creata, sono qui tanto semplici e trasparenti che perfino il signor M. Wirth potrebbe capirle senza particolare sforzo mentale. Eppure, vi sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore.
A Robinson non interessa il valore (di scambio) delle cose che produce, perché non c’è nessuno con cui scambiarle. Ogni cosa, però, è determinata chiaramente sia da quanto è utile, sia da come può essere prodotta (il lavoro particolare necessario per una cosa è ben diverso da quello necessario per un’altra), sia infine dalla misura astratta del tempo di lavoro necessario, considerato nella sua generalità. La conoscenza di quest’ultima determinazione è certo utile a Robinson, ma solo per programmare le sue future attività, non certo per misurarne il valore, ossia quanto egli, lavorando, abbia sottomesso se stesso ad altri.
Trasportiamoci ora dalla luminosa isola di Robinson nel tenebroso Medioevo europeo. Qui, invece dell’uomo indipendente, troviamo che tutti sono dipendenti: servi della gleba e padroni, vassalli e signori feudali, laici e preti. La dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione materiale, quanto le sfere di vita su di essa edificate. Ma proprio perché rapporti personali di dipendenza costituiscono il fondamento sociale dato, lavori e prodotti non han bisogno di assumere una figura fantastica differente dalla loro realtà: si risolvono nell’ingranaggio della società come servizi in natura e prestazioni in natura. La forma naturale del lavoro, la sua particolarità, è qui la sua forma sociale immediata, e non la sua generalità, come avviene sulla base della produzione di merci. La corvée si misura col tempo, proprio come il lavoro produttore di merci, ma ogni servo della gleba sa che quel che egli aliena al servizio del suo padrone è una quantità determinata della sua forza-lavoro personale. La decima che si deve fornire al prete è più evidente della benedizione del prete. Quindi, qualunque sia il giudizio che si voglia dare delle maschere nelle quali gli uomini si presentano l’uno all’altro in quel teatro, i rapporti sociali delle persone appaiono in ogni modo come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti del lavoro.
Nell’economia feudale, i rapporti di potere tra le persone erano immediatamente evidenti e giustificati sulla base ideologica della religiosità semi-pagana della natura. Lo sviluppo delle forze produttive non consentiva che una limitatissima indipendenza dell’uomo dalla natura e determinava rapporti di produzione, come il servaggio della gleba, in cui la subordinazione di alcuni uomini ad altri era di immediata evidenza e ‘voluta da Dio’. Anche in questo contesto non c’è bisogno che il lavoro e i suoi prodotti appaiano come proprietà del lavoratore che liberamente li cede sul mercato in cambio di qualcos’altro: il lavoro del servo della gleba è già manifestamente proprietà del signore; i prodotti che i laici devono ai preti (le decime) sono già da sempre proprietà dei preti.
Certamente, in questo contesto gli uomini non sono liberi, bensì ‘persone’ (maschere, ruoli) che recitano la loro parte nel teatro delle disuguaglianze ‘naturali’ e del dominio di alcuni su altri. Ma almeno – sembra dire Marx, che comunque non ha alcuna nostalgia – non si fa credere agli uomini di essere liberi, per poi subordinarli col feticismo della merce.
Non abbiamo bisogno, ai fini della considerazione di un lavoro comune, cioè immediatamente socializzato, di risalire alla sua forma naturale spontanea, che incontriamo sulla soglia della storia di ogni popolo civile. Un esempio più vicino è costituito dall’industria rusticamente patriarcale d’una famiglia di contadini, che produce grano, bestiame, filati, tela, pezzi di vestiario, ecc. Per quanto riguarda la famiglia, queste cose differenti si presentano come prodotti differenti del suo lavoro familiare; invece per quanto riguarda le cose stesse, esse non si presentano reciprocamente l’una all’altra come merci. I differenti lavori che generano quei prodotti, aratura, allevamento, filatura, tessitura, sartoria, nella loro forma naturale sono funzioni sociali, poiché sono funzioni della famiglia che ha, proprio come la produzione di merci, la sua propria divisione del lavoro, naturale ed originaria. Le differenze di sesso e di età, e le condizioni naturali di lavoro varianti col variare della stagione, regolano la distribuzione di quelle funzioni entro la famiglia e il tempo di lavoro dei singoli membri. Però qui il dispendio delle forze-lavoro individuali misurato con la durata temporale si presenta per la sua natura stessa come determinazione sociale dei lavori stessi, poiché le forze-lavoro individuali operano per la loro stessa natura soltanto come organi dalla forza-lavoro comune della famiglia. …
Un discorso analogo vale per certa economia agricola contemporanea a Marx, in cui una famiglia di contadini produce in un regime di quasi totale autosufficienza e costituisce una forma di comunismo primitivo. Anche qui i rapporti di potere all’interno della famiglia sono del tutto espliciti e ‘naturali’, determinati dal sesso e dall’età. Anche qui, dunque, non c’è alcun bisogno di venerare i prodotti del lavoro e trasformarli in merci, giacché per tutti i membri della famiglia vale un principio solidaristico di distribuzione del lavoro come dei beni prodotti.
[…]
Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri lavori privati l’uno all’altro in questa forma oggettiva come eguale lavoro umano, il cristianesimo col suo culto dell’uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, nel deismo, ecc., è la forma di religione più corrispondente. Nei modi di produzione della vecchia Asia e dell’antichità classica, ecc., la trasformazione del prodotto in merce, e quindi l’esistenza dell’uomo come produttore di merci, rappresenta una parte subordinata, che pure diventa tanto più importante, quanto più le comunità s’addentrano nello stadio del loro tramonto. Popoli commerciali veri e propri esistono solo negli intermondi del mondo antico, come gli dèi di Epicuro, o come gli ebrei nei pori della società polacca. Quegli antichi organismi sociali di produzione sono straordinariamente più semplici e più trasparenti dell’organismo borghese, ma poggiano o sulla immaturità dell’uomo individuale, che ancora non s’è distaccato dal cordone ombelicale del legame naturale di generazione con altri uomini, oppure su rapporti immediati di padronanza e di servitù. Sono il portato di un basso grado di svolgimento delle forze produttive del lavoro, e di rapporti fra gli uomini chiusi entro il processo materiale di generazione della vita, e quindi fra loro stessi, e fra loro e la natura: rapporti che sono ancora impacciati, in corrispondenza a quel basso grado di svolgimento. Tale impaccio reale si rispecchia idealmente nelle antiche religioni naturali ed etniche. Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura. La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano. Tuttavia, affinché ciò avvenga si richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni materiali di esistenza che a loro volta sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento lungo e tormentoso.
Quanto più una comunità (un insieme di persone dominate da un qualche principio unificatore che le trascende) si avvia alla dissoluzione, allentando i legami diretti tra i suoi membri, tanto più diventa importante che i prodotti del lavoro ed il lavoro stesso diventino merci. Mentre Hegel (e poi tanti altri in seguito) credeva che fosse l’emergere dell’idea della libertà ad innescare il processo evolutivo dell’economia, per il materialismo storico di Marx solo allorché si creano le condizioni materiali (un sufficiente sviluppo delle forze produttive) può avviarsi il circolo capitalistico di autoamplificazione così raffigurabile: maggiore ricchezza disponibile → maggiore indipendenza di un numero più grande di individui → allentamento dei legami solidaristici comunitari → maggior bisogno di accumulare ricchezza individualmente → maggior impegno lavorativo di un numero più grande di individui → maggiore ricchezza etc.
Se nel mondo politeistico dell’antichità ogni comunità adorava se stessa nel proprio dio (come dirà Durkheim mezzo secolo dopo), con l’avvento delle economie politiche in cui la comunità autarchica deve necessariamente dissolversi in un insieme di individui (la società civile), si impone la religione cristiana nella sua versione protestante, con l’ideale dell’uguaglianza astratta di tutti gli uomini. Ancora una volta la sovrastruttura religiosa interviene a giustificare la struttura sociale necessaria al processo economico.
Alcune considerazioni complessive sull’analogia tra cristianesimo e ateismo, da una parte, e capitalismo e comunismo, dall’altra.
Che il cristianesimo più che una ennesima religione sia la fine di ogni religione è chiaro già in Hegel, benché tale verità – come la luce delle stelle, dirà Nietzsche – per giungere a noi necessiti di tempo e di infinite precauzioni. Il vino nuovo spacca gli otri vecchi e deve essere annacquato. La religiosità cristiana nelle varie epoche e culture ha dovuto mescolare alla Buona Notizia dell’identità di uomo e dio il feticismo dei rituali, della gerarchia e dei catechismi, perché l’uomo senza dio non è più nemmeno uomo e se si vedesse non si riconoscerebbe, si spaventerebbe. Di fatto, però, con il protestantesimo è successo che l’esperienza mistica di un monaco agostiniano, combinatasi con la sua testardaggine e con le convenienze politiche dei principi d’Europa, si è popolarizzata, la ri-velazione si è via via trasformata in disvelamento e gli uomini si sono trovati ciascuno da solo di fronte a dio, cioè di fronte alla propria verità.
L’importanza di tale evento – di per sé sovrastrutturale – è sottolineata pienamente dal giovane Marx:
Lutero ha vinto la servitù fondata sulla devozione, perché ha messo al suo posto la servitù fondata sulla convinzione. Egli ha infranta la fede nell’autorità, perché ha restaurata l’autorità della fede. Egli ha trasformato i preti in laici, perché ha trasformato i laici in preti. Egli ha liberato l’uomo dalla religiosità esterna, perché ha spostata la religiosità nell’interno dell’uomo. Egli ha emancipato il corpo dalle catene, perché ha posto il cuore in catene. (Per la critica della filosofia hegeliana del diritto, 1844)
Già alla luce di questo evento, a partire dalla fine della sacralità comunitaria e con l’allentarsi dei vincoli sociali, anche a prescindere dalla congiuntura materiale dell’accumulazione originaria, diventa comprensibile l’innesco del circolo dell’accumulazione di cui sopra. La buona novella della liberazione da ogni gerarchia religiosa e quindi sociale e quindi economica – il comunismo -, spaventa gli uomini, come da sempre li spaventa l’ateismo cristiano. C’è immediato bisogno di un nuovo dio, di un dio che più feticcio di così non potrebbe essere: la proprietà privata individuale. Sancita (resa santa) dallo scambio nel libero mercato (cfr. Hegel), diventa la nuova divinità cui tutto sacrificare. Gradualmente, ma inesorabilmente, allo scambio di reciprocità si viene sostituendo lo scambio di mercato (cfr. Karl Polanyi), ossia il capitalismo disembedded. A sua tutela e di coloro che esso soggioga, nasce lo Stato moderno. Sintetizza bene il tutto F. Engels (citato da C. Schmitt in Teologia politica): “L’essenza dello Stato come della religione è la paura dell’umanità di fronte a se stessa”.
Come l’ateismo protestante non poteva che emergere come la verità nascosta del cristianesimo cattolico annientandolo, così il comunismo dovrà prima o poi squarciare il velo di Maya del feticismo capitalistico. Quando ciò potrà avvenire? Rileggiamo:
La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano.
“Uomini liberi uniti in società” sono gli individui disembedded della società borghese, che organizzano il “processo vitale” in modo cosciente e pianificato. Quando succederà che i liberi produttori accettino consapevolmente di sottomettersi ad un piano? A quali condizioni la libertà accetterà di realizzarsi pienamente nella sottomissione alla razionalità? Non si tratterà dell’ennesima alienazione feticistica?
Marx aveva già spiegato in gioventù che si deve toccare il fondo abissale della condizione proletaria per poter sviluppare una tale sublime libertà.
Dove è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca? Risposta: nell’educazione di una classe radicalmente incatenata, di una classe della società borghese che non è una classe della società borghese, di un ceto che è la sparizione di tutti i ceti; di una sfera che ottiene dalle sue universali sofferenze un carattere universale e non accampa nessun diritto speciale, perché essa non patisce una speciale ingiustizia, ma l’ingiustizia pura e semplice; … di una sfera, infine, che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e senza emanciparle a loro volta, che, in una parola, è il completo annientamento dell’uomo, e quindi si può riabilitare solo con la completa riabilitazione dell’uomo. Questo ceto speciale in cui la società va a sciogliersi è il proletariato. (Marx, Per la critica della filosofia hegeliana del diritto, 1844)
Il proletariato appare qui come la concreta realizzazione del sogno aristotelico, l’intelletto attivo/pensiero di pensiero che è tutto proprio perché non è niente di determinato. Ma potremmo dire lo stesso in riferimento alla mistica del cogito cartesiano, o quella del servo hegeliano che accetta di sottomettersi dopo aver visto in faccia il nulla e che sulle sue spalle ‘toglie’ i peccati del mondo. In fondo sarebbe l’unico vero soggetto rawlsiano in posizione originaria, dotato di una docta ignorantia tutt’altro che ipotetica. Come poi in Rawls, già in Marx nulla possiamo ancora sapere di che cosa concretamente decideranno questi purissimi e poverissimi oltre-uomini: la bontà di ciò che decideranno sarà garantita dalla ‘procedura’ che li ha resi pura praxis rivoluzionaria.
E’ vero che Marx negli anni successivi ha abbandonato i toni mistici e le argomentazioni metafisiche. Per lo scienziato del Capitale, la libertà dei produttori associati e la fine del feticismo saranno possibili “solo dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, – solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue bandiere: – Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Critica del programma di Gotha, 1875)
Come dire: i proletari faranno la rivoluzione quando, privi di tutto, vedranno però la concreta possibilità di impadronirsi di un sistema produttivo che proprio il capitalismo ha portato ad essere praticamente perfetto.
Fu forse il clima culturale del positivismo ad averlo indotto a credere che 1. il capitalismo stesso avrebbe sviluppato oltre alla polarizzazione sociale, anche le tecniche produttive necessarie alla soddisfazione di bisogni e desideri; e che 2. gli uomini avrebbero così profondamente interiorizzato il lavoro da sottomettervisi essi stessi come ad una seconda natura, consentendo alla produzione di sostenere i bisogni. Si direbbe che Marx – che inviò una copia del Capitale con dedica a Darwin -, non diversamente da Herbert Spencer, credesse che alla lunga l’animale uomo si sarebbe stabilizzato, trasformando in bisogni fisiologici quello che prima erano solo imposizioni esteriori.
Oggi però – mi permetto di dire – sappiamo che era una illusione! Sappiamo che i desideri degli uomini sono inesauribili, perché mimetici, legati ad un bisogno, quello del riconoscimento, su cui grava – direbbe Dante – “consorte divieto” (Purgatorio, XV, cornice degli invidiosi). Come già aveva capito Hegel, “nonostante l’eccesso di ricchezza, la società civile non è [non sarà mai] ricca abbastanza” (Filosofia del diritto, § 245).
Se non sarà la naturalizzazione dell’uomo, né l’umanizzazione della natura a porre fine al dominio dell’uomo sull’uomo, si deve forse allora ritornare alla prospettiva del giovane Marx, all’intuizione pre-weberiana che senza l’etica protestante non ci sarebbe nemmeno il capitalismo?
In effetti, se non sarà la ricchezza a rendere inutile lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, sarà l’estrema povertà a rendercelo intollerabile. Ma quale povertà? Quella materiale non sempre edifica, anzi, spesso provoca solo risentimento, desiderio di vendetta ed eterno ritorno della violenza. Se è difficile, ma non impossibile, che i ricchi entrino nel Regno di Dio, nemmeno è sicuro che vi entrino i poveri in quanto tali. (Da quanto sappiamo, anche senza leggere Primo Levi, la povertà estrema il più delle volte abbrutisce.) E’ allora davvero difficile credere che tale presa di coscienza sia resa possibile dal meccanismo stesso del capitalismo. Questo, al contrario, produce necessariamente la falsa coscienza, anche quando porta all’estremo l’indigenza degli sfruttati. Non dovremmo ammettere che qui si rivela qualcosa di spirituale, come un supplemento alla pura materialità del meccanismo azione-reazione a cui ogni coscienza può in fondo ridursi? Questo supplemento è l’autocoscienza, ossia la coscienza della propria falsità essenziale, l’esperienza – che ci trascende – del nulla di verità. Per quanto povera, una coscienza materialmente determinata semplicemente non può sviluppare la coscienza del proprio nulla. E’ la povertà spirituale che – se stiamo al vangelo di Matteo – ci garantisce la salvezza. Ma essere poveri nello spirito è una grazia, perché è una grazia percepire il nulla dietro il feticcio.
Non la ricchezza, dunque, né la povertà in quanto tali possono salvarci. Solo la visione del feticcio come feticcio ci pone quantomeno nella condizione di poter scegliere, come il Neo di Matrix dopo aver preso la pillola rossa. La scelta è tra rifiutare il feticcio in quanto finzione, in quanto fondato sul nulla, e l’accettarlo.
Rifiutarlo dopo aver visto il nulla, significa abbandonarsi al nulla. E’ il nichilismo, quello che Hegel chiama “la furia della distruzione” e di cui era vittima certo egualitarismo rivoluzionario a lui contemporaneo (cfr. Filosofia del diritto, § 5). E’ un atto sicuramente spirituale, ma non certo di uno spirito santo.
Al contrario, accettarlo nella consapevolezza del suo quasi-nulla, significa farsene carico e partecipare attivamente al suo precario riprodursi, con tutta la relazionalità malata che esso legittima, ma anche con la sofferenza suppletiva che spetta a chi sa. Una splendida allegoria ho ascoltato in una lezione di Slavoj Žižek
La storia di Benigni ne La vita è bella, secondo lui, doveva essere completata così: il padre che allestisce l’improbabile mascherata per illudere e salvare il figlio, riesce nell’intento solo perché in realtà è il figlio stesso che, avendo capito tutto e avendo capito quale amore spinga il padre a fingere, finge di credergli per salvarlo dalla disperazione. Se poi il padre ha capito che il figlio ha capito, e finge di non aver capito, saremmo proprio nel bel mezzo di una commedia degli equivoci davvero divina, dove non si sa più chi tutela chi, dove l’apparente complementarietà delle relazioni nasconde la loro simmetria profonda e dove domina una spiritualità santa.
E noi, figli del capitalismo, ora che il segreto della merce è stato svelato in tutta la sua assurdità, che cosa decidiamo di fare?
Né Marx né Hegel – credo – hanno mai pensato che ricchezza o povertà potessero salvarci. Tanto è vero che il primo formula una teoria oggettiva del crollo del modo di produzione capitalistico, peraltro legata indissolubilmente a quella teoria del valore-lavoro che qui probabilmente a torto si giudica ormai irriproponibile, mentre il secondo vede piuttosto in un’organizzazione giuridica oggettivamente razionale – lo Stato moderno – l’unica possibile risoluzione degli antagonismi scatenati dagli egoismi della società civile. Non capisco quindi la parte finale del post, tutta giocata sulla necessità dell’ennesimo misticismo di sapore vagamente heideggeriano (lo Heidegger dei Beiträge, suppongo), intesa come esperienza (trascendente) del “nulla di verità”. Sarebbe come rendere vana tutta l’analisi del Capitale, qui minuziosamente articolata e seguita nei minimi dettagli: se l’autocoscienza deve giungere al rifiuto del feticcio come finzione, essa deve ammettere – hegelianamente – almeno la sua capacità di cogliere il feticcio come apparenza, come mistificazione, e non come realtà quasi-naturale o sovrannaturale in grado di produrre effetti su ciò che è materialmente determinato. Sicuramente non può ammettere la nullità del feticcio, ma deve coglierne – piuttosto – il carattere di apparenza socialmente necessaria e spezzare dialetticamente questa apparenza.
Ciò implica l’acquisizione, il passaggio, la transizione – tanto in Marx quanto in Hegel e soprattutto in Rawls – a una società compiutamente razionale, capace cioè di decidere autonomamente dei propri fini e dei propri valori, oltre che dei propri bisogni: una cooperazione razionale fra eguali, direbbe Rawls; un’associazione di liberi produttori, direbbe Marx. La religione – e in ispecie il cristianesimo nella sua forma protestante – è per Marx la principale concrezione che soffoca ogni sforzo in questa direzione: illuminante, in questo senso la citazione dalla Critica della filosofia hegeliana del diritto. Irrazionale è pertanto qualsiasi oggettivazione sociale (sistemica, individualistica, mistica, nichilistica) che impedisca di realizzare questo telos immanente della società: il Medioevo cristiano lo impediva con il ben noto sistema della dipendenza universale garantita dalla stratificazione per ceti, il mondo borghese lo impedisce con un’apparenza socialmente necessaria, la forma-merce, ma il risultato è analogo: l’irrazionalità delle relazioni intersoggettive nell’uno come nell’altro modo di produzione. Com’è noto, questa irrazionalità è stata chiamata “reificazione” della tradizione del marxismo dialettico. Essa preclude la possibilità di rendere razionali i rapporti sociali esistenti a meno di non produrre – secondo un certo marxismo critico – quell’autocoscienza per cui “nella merce l’operaio riconosce se stesso ed i suoi propri rapporti col capitale… La sua coscienza è l’autocoscienza della merce; o, in altri termini: l’autoconoscenza, l’autodisvelamento della società capitalistica fondata sulla produzione e sullo scambio di merci” (G. Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato, in Storia e coscienza di classe, 1923, tr. it. p. 222). Quindi, se vogliamo restare a un certo marxismo critico, sarebbe soltanto dalla presa di coscienza del proletariato, a rigore, che ci si dovrebbe attendere la salvezza, non da categorie astratte come ricchezza o povertà. Una volta tramontato il soggetto storico del mutamento, una volta che si è scoperto che i “proletari” non vogliono più fare la rivoluzione ma vogliono la casetta col mutuo, l’auto a rate (come aveva ben capito Henry Ford) e magari votano a favore del Führerprinzip e schifano la socialdemocrazia, cade il presupposto della trasformazione e del cambiamento – quel cambiamento che qualcuno allora si sente in dovere di cercare in dinamiche extrastoriche ed extraconcettuali. Ma poco importa che esse siano mistiche o sistemiche, che ci si balocchi con il cinismo di Sloterdijk o il neofrancescanesimo pontificale, conta il fatto che non sono né storiche né razionali, quindi estranee tanto a una visione hegeliana quanto a una concezione materialistica. Cercare fuoriuscite teologico-politiche alla crisi del capitale, come ancora vorrebbero certi pensatori italiani alla moda, significa non aver colto quel nucleo di base del marxismo che anche oggi costituisce una guida “straordinariamente attuale”.
Non siamo ancora stati salvati, dicono gli orfani di Heidegger. Ma in un pensiero educatoi criticamente la domanda deve porsi diversamente: perché abbiamo ancora bisogno di essere salvati?