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Posts Tagged ‘velo di Maya’

Noi siamo fatti della stoffa di cui sono fatti i sogni

(Shakespeare, La Tempesta, atto IV, sc. I)

Una volta Zhuang Zhou sognò d’essere una farfalla, una farfalla che svolazzava qui è là felice d’essere se stessa. La farfalla non sapeva d’essere Zhou. Improvvisamente si svegliò e si ritrovò ad essere Zhou. Non sapeva però se Zhou aveva sognato la farfalla oppure se la farfalla sognava ora Zhou. Eppure tra Zhou e la farfalla c’è differenza”

(storiella taoista, da Zhuang Zi, cap.II)

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Nel cortometraggio “Che cosa sono le nuvole“, girato nel 1967, Pier Paolo Pasolini mette in scena un “Otello” recitato da attori che fingono di essere marionette.

Il dramma è allestito, nel film, in un teatraccio di periferia e i classici personaggi della tragedia – recitati da famosi attori, per lo più comici, dell’epoca che si fingono marionette – declamano alla lettera parti del classico testo shakespeareano, seppure a volte tradotte in un italiano romanesco popolano e con toni e cadenze volutamente spesso un po’ sopra le righe o dialettali. La recita dei personaggi sul palco è intercalata da situazioni in cui le marionette – in momenti di pausa precedenti o successivi lo spettacolo – inerti appesi al muro dietro le quinte disquisiscono sul senso di quel che fanno e recitano e del senso del mondo e l’esistenza in genere. In alcuni altri momenti alcuni personaggi inteloquiscono durante la rappresentazione con il marionettista stesso, che a sua volta dice la sua, fornendo a Otello-Ninetto Davoli una sua spiegazione “psicanalitica” sul comportamento di Otello stesso e sul senso di che sia mai la verità. Alla fine interagiscono persino col pubblico in sala (che alla fine irrompe violentemente in scena prendendo pure parte in prima persona alla vicenda narrata, scagliandosi contro Otello-Ninetto Davoli e Totò-Iago danneggiandoli irreperabilmente).

Pasolini costruisce così, ad altissimi livelli poetici, una struttura narrativa che di per sè è l’apertura di una dimensione fantastica e onirica (il film) al cui interno si snoda una rappresentazione a sua volta onirica e fantastica (l’ “Otello” recitato da marionette e visto da un pubblico). Il tutto allestito e osservato da uno sguardo esterno (Pasolini stesso?) che a volte si intromette pure in scena, con battute, fuori testo e a volte fuori contesto, che quasi sempre sono messe in bocca al qui grandissimo Totò.

Cosa sono le nuvole” è chiaramente una metafora, il cui senso essenziale può essere forse riassunto anche nella frase rivelatrice che a un certo punto Totò-Iago-(Pasolini?) pronuncia:

Noi siamo in un sogno dentro un sogno

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Sogno di Dei-antenati

Già per gli Aborigeni australiani, d’altronde, il mondo tutto è fondamentalmente un sogno: emersione (da squarci, crepacci) di un sogno sognato (e insieme cantato) da ancestrali creature sognanti, capostipiti – umani e insieme animali e vegetali, totem – di tutti i diversi clan, e di ogni specie animale e vegetale.

Ogni roccia, ogni luogo (o comunque, secondo altre interpretazioni antropologiche, almeno alcune rocce e alcuni luoghi) sono cristallizzazione, fossilizzazione, rammemorazione del senso che il sogno originario degli Dei-antenati ha fissato. Alcuni di tali Dei si sono dispersi nel mondo da essi evocato; altri vi si sono insediati incarnati in roccia; altri ancora sono tornati entro la terra da cui avevano fatto irruzione; altri infine, sembra, si sono allocati in dimensione uranica. Il tempo dell’Origine è per gli Aborigeni quello in cui il Sacro si articola forgiando il Senso del mondo: l’Epoca dei Sogni, arcaica e insieme presente (e peraltro terminata al tempo dell’incontro con la nostra cultura, che ne cancella la presenza ancestrale distruggendo il popolo aborigeno e destrutturandone il mondo)

Ogni gruppo aborigeno, ogni clan, ritiene cioè di discendere da uno di questi antenati ancestrali, totemici. Ogni clan deve perciò la sua identità al Sogno specifico originariamente sognato dal suo antenato umano-animale incarnato nel totem. Perciò ogni clan ha i suoi canti, riti, leggende. E suoi siti sacri nei quali il Sogno è sedimentato, divenuto letteralmente mondo, spazio, mappa, roccia, senso. Ogni clan deve così rimemorare il suo specifico Sogno sognato da un’ancestrale creatura sognante che sogna un sogno in cui emerge il mondo.

La Genesi per gli Aborigeni è quindi lo scaturire di un Sogno. Ma la genesi è peraltro sempre anche qui e ora e perciò l’umano notturno sognare è modo per accedere al Mondo Originario. Modo includente il mondo da esso emerso e, insieme, parallelo al mondo diurno.

Sognare è dunque accedere a un varco di conoscenza verso una dimensione altra, il tempo mitico, che è insieme apertura inclusiva del mondo  storico, nel quale i singoli sogni sono segni depositati. In alcuni luoghi e tempi il sogno riaccosta persino direttamente all’origine in cui il senso è racchiuso: nel sogno sciamanico si ha accesso diretto ad altri tempi, altri luoghi, nonchè a quanto è interno nascosto (attraverso la visione endoscopica, tipica anche dell’arte aborigena).

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Pitagora – così ci racconta Giamblico nel suo “De vita pythagorica“  – teneva il suo insegnamento ai discepoli, seppure solo a quelli (gli “acusmatici“, che possono solo ascoltare e non intervenire) del più basso iniziale livello di iniziazione alla verità da lui svelata, nascosto dietro una tenda. Ne udivano dunque, gli acusmatici, la voce. Ne intuivano magari la figura, se la tenda non era troppo spessa. Ma di Pitagora non dovevano percepire chiaramente null’altro se non la parola da Pitagora detta.

Nel cerchio di una stanza, da dietro una tenda, dunque – in una scena che delinea l’alba della filosofia – un volto assente, un corpo vago articolano l’approccio ai significati – proposti come sapienziali – dal filo-sofo cercati e dal suo dire indicati e insegnati.

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Si dispone in tal modo uno spazio, per la filosofia inaugurale (è a Pitagora tra l’altro che si deve per primo l’uso del termine philo-sophia ad indicare il sapere da lui cercato). In questo spazio, in cui la sapienza cercata è insegnata, la filosofia e il suo insegnamento prendono una non irrilevante specifica forma.

In questo spazio, un velo (la tenda) è inframezzo tra il dire il vero e il porgervi ascolto.

Da questo inframezzo il sapiente (Pitagora) è nascosto, come dietro una maschera priva di volto.

Da una pura superficie velante, dunque, un chiunque (chi è davvero Pitagora?), al di qua del limite che la maschera circoscrive, fa così trapelare nel suo dire, da un oltre, un gioco di evidenze e apparenze (parole si mostrano, quali apparire o apparenze), rimandi e latenze (in cui parole e sensi consistono).

In questo gioco – in cui peraltro ogni qualsivoglia dire in fondo consiste – si espone e nasconde Pitagora. Si espone e nasconde Pitagora in quanto filosofo.

Si espone e nasconde il docente.

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