“Bisogna avere un caos dentro di sè
per partorire una stella danzante
(Friedrich Nietzsche)
(…)
- Ritmi della persistenza dell’altro: il desiderio
Quando lo sguardo desiderante incrocia infatti lo sguardo dell’altro desiderato, e codesto altro è accogliente contraccambiante, in qualche modo il desiderio ottiene esaudimento possibile nel suggello della relazione che il desiderio alimenta. Il desiderio, riconosciuto e accolto dal desiderato disponentesi – secondo una dinamica identica correlativa – a sua volta come sguardo desiderante, produce l‘esaudimento di un desiderio reciproco.
Ma ciò avviene sempre nella saldatura di una relazione che resta inquietudine, in un compimento che non può che darsi inevitabilmente e sempre che in segni via via da decodificare e in dilazioni, fossero anche solo le dilazioni necessarie per dare il tempo necessario per le decodificazioni.
Anche nell’ottenimento, sempre perciò una distanza è ribadita, l‘oggetto del desiderio, nella sua libertà, resta sempre altro e può costantemente sfuggire alla presa. Perciò unico approdo del desiderio è solo la prossimità, dell’oggetto del desiderio si può avere solo cura e custodia, inevitabile è anche stare, pur nell’attivo darsi da fare almeno per lasciare aperto lo spazio al riconoscimento agognato, in attesa secondo impotenza.
Ciò che il desiderio attende (senza esigerlo, sennò sarebbe volontà di consumo) è in fondo quindi un dono. Ma un dono mai garantito, perché fondato sulla libertà dell’altrui desiderio che in quanto tale può sempre non corrispondere o volgersi altrove per cui, anche quando l’oggetto del desiderio è magari acquisito, non è mai acquisito una volta per tutte.
Anche nel caso in cui il desiderio non sia rivolto – come può anche essere come nel caso del richiamo del sacro – a un ente finito, ma sia teso a un intero nel desiderio di una fusione mistica; anche in questo caso l’intero non potrebbe che darsi inattinto dal desiderio. Nella fusione infatti il desiderio semplicemente non sarebbe, non sarebbe la relazione in cui esso consiste, non sarebbe attingente ma semplicemente cesserebbe di essere.
Ogni esaudimento definitivo e totale del desiderio è quindi impossibile e il desiderio non può che essere sempre ulteriore iterata rinnovata ricerca del compimento, di sempre altro compimento.
Anche nel desiderio è quindi sancita l’ineludibilità del ciclo: nel ritmo di un desiderio sempre riacceso, riavviato e ancora riavviato.
- Ritmi incarnati del corpo sessuato
Anche nel suo incarnarsi (nel sesso) il desiderio ribadisce una ritmica.
Nella sessualità qualcosa della cosa sessuata (pezzo di corpo o corpo come pezzo essa sia) vale come frammento, quale metà (o parte di una metà) di un simbolo che prefigura un intero. Perciò il (pezzo di) corpo attrae: perché esso manca. Questa mancanza è segno di distanza e data la distanza si determinano una direzione e un percorso. Nel gioco di una reciproca attrazione tra sessi combacianti, l’emozione che innerva l’energia diffusa nell’intreccio dei corpi rivela nel fluire del godimento comune la tensione alla ricostituzione di un intero, cui i due frammenti (le due metà sessuate del simbolo) collaborano.
Ma anche quando il sesso giunge al compimento della sua intenzione, tra le due parti resta fessura. Questo è importante: l’intero, propriamente parlando, non si realizza e resta quel che è, ossia un’intenzione, che tale deve restare per alimentare l’iterazione della reciproca ricerca dei sessi.
Nell’accoppiamento l’oggetto è cioè raggiunto, ma soltanto nel senso che esso è portato alla massima vicinanza possibile. Ciò significa che comunque è tenuto a distanza. Ritmicamente colmata al suo punto massimo possibile la distanza però rimbalza indietro e si rifrange. L’emozione, al suo compimento, si ritrae, si spegne, si spezza. Il soggetto di essa (in quanto soggetto erotizzato) scompare. E con lui scompare anche l’oggetto in quanto erotizzato/erotizzante.
Così, grazie a questa dinamica, il ritmo, anche qui, sancisce sé stesso: l’emozione sessuale dileguata si placa, ma così dà il tempo a una riaccumulazione: predispone a una riapertura e a una riapparizione in ritmiche fasi.
- Ritmo del giorno (del giorno e la notte)
Desiderio, consumo, sessualità (e tutte le altre concepibili ritmiche) si inscrivono tutti in un ritmo fondamentale e essenziale: il ritmo del giorno e la notte.
In contrappunto coi ritmi dei cicli cosmici, coi ritmi delle stagioni, la luce e il calore pulsano nel ciclo della giornata, nell’alternarsi e ripetersi delle fasi del giorno. In atmosfere ogni giorno diverse si dipanano i ritmi della vita, nello scandire le emersioni dal sonno e le immersioni in esso. Questo è il diurno: la veglia. Ad essa, nel ciclo circadiano, fa contrappunto la notte in cui poter incontrare anche e sogno e oscurità e ombra.
In un periodico riemergere e reimmergersi in questo altro ancestrale (il sonno), tra un inizio e un termine della giornata scanditi da fasi (da ritmi), i cicli della forza e l’esaurirsi di essa, l’insinuarsi o l’irrompere di stanchezza e vigore, secondo flessibili ma ineludibili andamenti energetici, danno tempo e differenti intensità alla vita. Dalla sonnolenza del risveglio alle ritualizzazioni del primo mattino, al successivo inoltrarsi attenti o distratti nel mondo diurno dell’impegno del fare e del dire, fino alla dilagante stanchezza e l’assopimento che riconduce nel sonno.
Questo il diurno e i suoi ritmi. Entro queste dinamiche ritmicamente riemergono la fame e la sete, nonché desideri, emozioni. Il corpo tutto dispone i suoi ritmi nel ritmo del giorno.
Nel diurno si dispiegano così, ai nostri occhi aperti, reale e possibile, sancendo, nello stesso tempo, l’impossibile. Ogni giorno ha quindi il suo limite, la sua chiusura per lasciar luogo al mondo notturno in cui altro (altri ritmi?) si mostra.
Ma nessun giorno esaurisce il possibile fare o l’attesa.
Mai tutto è compiuto, qualcosa rimane sempre da fare. Altro giorno succede alla notte, nel ritmo ribadito e iterato che dà tempo alla vita. Ogni fine del giorno è perciò sospensione. In attesa di un’altra battuta del ritmo: dell’iterazione.
- Pulsazioni
Nelle ritmiche (quello sopra considerate, ma anche altre e altre) tutto pulsa scandendo tempi, (eventi, storie, in accelerazioni rallentamenti timbri…)
Una propulsione dà direzione. Ma trattenendosi per evitare la dissipazione, la spinta giunge perciò a un’acme e si esaurisce. La distanza permane. Perciò la pulsione può riproporsi, riprendere il ritmo. Ciclicamente. Battuta, pausa, ripresa: ritmo. Ritmo che scandisce pulsazione e distanza. Apre, quindi, e chiude spazi. In sistole e diastole, coagula e scioglie, compone, decompone, ricompone. Articola modulazioni le più varie, potenzialmente infinite. Ma, così facendo, anche insieme stringe e costringe nella forma essenziale imposta: forma ritmica che su tutto pone il suo suggello.
Tutto quanto scorre ha ritmo, è un ritmo.
Ma non per questo ogni ritmo, tuttavia, è lo stesso, nè ogni ritmo vale un altro.
Proprio perché lo scorrere è ritmico, quale tempo è battuto non è indifferente. Non ogni ritmo genera, dall’apertura pulsante del caos, la stella e la danza.
- La stella danzante
Non ogni ritmo è una danza. Non ogni caos partorisce una stella danzante.
La stella: ciò che dà orientamento perchè dà luce nel suo stare là permanendo. La stella: ciò di cui siamo fatti nel nostro esserne polvere.
La danza: il muoversi, disponendo dello spazio del corpo proprio in costante fluire e equilibrio, in continuo cangiare di posture e di forme, secondo stilema, attorno al perno di un baricentro, il proprio baricentro, per ciascuno diverso.
Stella e danza partorite da un caos: provenienti da un sè fecondato dalla relazione con altro, nelle doglie che lasciano andare altro da sè, ma dentro di sè pian piano cresciuto.
***
Subito si cuce questo niente da dire
ad una voce che batte. Vuole
palpitare ancora, forte, forte forte
dire sono – sono qui – e sentire che c’è
fra stella e ramo e piuma e pelo e mano
un unico danzare approfondito, e dialogo
di particelle mai assopite, mai morte mai finite.
Siamo questo traslare cambiare posto e nome.
Siamo un essere qui, perenne navigare
di sostanze da nome a nome. Siamo.
(Mariangela Gualtieri ,da “Quando non morivo”)
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