- “Se sono amici, fateli entrare!” (212d)
Nel “Simposio”, non appena Socrate ha terminato di riferire il discorso della sacerdotessa Diotima, svelata finalmente quindi in tal modo la completa e vera natura di Eros, prima che chiunque altro possa aggiungere qualcosa (e in particolare prima che Aristofane, che già si sta agitando e cerca di prender la parola, possa obiettare alcunché), si sente un gran rumore provenire dall’esterno e qualcuno picchiare con forza alla porta.
“Se sono amici fateli entrare“, ordina Agatone, festeggiato padrone di casa.
- Sulla soglia, Alcibiade
Alla porta è Alcibiade, accompagnato dai servi. Alcibiade che, del tutto intenzionalmente, non era stato invitato e che ora, invece, ciononostante chiede di entrare.
Che Alcibiade giunga amichevole non è perciò garantito. Ma ha bussato. E attende. Chiede perciò di entrare, ma non irrompe, non forza l’entrata.
In un istante, sospeso, Alcibiade attende.
Alcibiade dunque preme, ma in prima battuta se ne sta lì: sulla soglia, soglia inframezzo tra un dentro e un fuori.
Alcibiade viene dal fuori. Da lì si muove. Ma sulla soglia, per un attimo almeno, in sospensione sosta.
Nel confine, limite tra l’interno domestico (e quindi addomesticato) della casa e il fuori – fuori quindi dalle mura chiuse della stanza in cui la scena del discorso d’amore si è sino a quel momento in fondo pacatamente svolta – Alcibiade per un momento almeno attende.
Nell’istante in cui è ancora possibile la decisione se lasciare entrare o cacciare Alcibiade, l’intruso che – agghindato con nastri e incoronato di edera e viola – vuole, dice, entrare per “onorare Agatone, il più sapiente e il più bello“ è lì quale alterità. Alterità che incombe.
- Ospite non invitato
L’equilibrio sospeso subito dopo però si spezza.
Il momento di sospensione nella dinamica scenica presto finisce: Alcibiade decide: entra. Senza più indugi varca la soglia. E dunque irrompe – in modo chiassoso, ospite non invitato nella scena finora luogo del simposio d’amore.
Ma se così impone il suo essere incluso tra i convenuti, non viene però cacciato. Nessuno tra i presenti obietta che egli non sia uno di loro: un (potenziale) amico dunque. E, lo si sa, un iniziato d’Amore.
Uno cioè che dal convito era stato escluso, ma che i convitati sanno bene non essere per niente un estraneo.
- L’escluso. Ma chi è Alcibiade?
Agatone, perciò, seppure messo di fronte al fatto compiuto (Alcibiade è lì, è entrato) lo accoglie quale amico, convitato dunque anche lui al simposio. Amico non invitato, anzi inizialmente, e deliberatamente (Agatone non accampa scuse per non averlo chiamato), escluso dal gruppo. Ma che ora c’è, e con buona ragione, perché tutti sanno che alla brigata – chiusa nella stanza del simposio e isolata dentro il gioco della leggera ebbrezza e del regolato discorso su amore – manca Alcibiade.
Manca cioè quanto sinora escluso dal luogo del dire su eros. Alcibiade che è quanto nel convito, nonostante tutte le chiacchiere e i discorsi fatti, era assente, ma ora lì incombe.
Mancava Alcibiade. Mancava un rimosso di cui si sa la mancanza (altro rimosso irromperà alla fine portando alla baraonda finale, all’ubriacatura totale e al tacersi di ogni discorso).
Alcibiade dunque – l’escluso dal discorso fino ad allora articolato secondo ragione e bella dizione – si aggiunge ai convitati ed entra nella stanza. Motu proprio, ma accolto seppure non invitato. E una volta accolto, cinge di nastri Agatone, che ne accoglie, accettandoli, così la presenza.
Ma chi è Alcibiade? E chi è nell’economia del discorso? Che rappresenta? Cos’è Alcibiade?
- In vino veritas
Alcibiade è completamente ubriaco, ebbro di vino. Ubriaco, sa di esserlo e dichiara di esserlo, potendo perciò, lo sa. apparire ridicolo. Ma Alcibiade è anche giovane e bello, pieno di forze e di eros.
E’ questo Alcibiade, Alcibiade il bello, Alcibiade ebbro, che si unisce al gruppo degli encomiasti di Eros. Un Alcibiade che – dichiara egli stesso – nel partecipare all’encomio di Eros dirà, anche e magari proprio perché ebbro, verità, solo verità.
Ma una verità che viene, almeno in parte, da altrove una verità che – nell’economia complessiva dei discorsi tenuti sinora tra i convitati – non è ancora finora stata udita. Verità proveniente da mondo esterno al discorso finora proferito: la verità che viene dal discorso incontinente, da ebbrezza.
- Il terzo, la riapertura del gioco.
Alcibiade, in un primo momento, non si accorge della presenza di Socrate.
Perciò è senza volerlo che, sedendosi a lato del festeggiato Agatone, si interpone in tal modo tra Agatone e Socrate stesso. Lo fa senza volerlo certo, ma nella casualità è il destino che spetta a Alcibiade: egli è l’altro che si intromette e interpone.
E’ il terzo. Il terzo che si insinua nel gioco di attenzioni che a partire da un certo punto del dialogo si è avviato tra Agatone e Socrate. Ma è anche il terzo che riapre il dialogo, oramai confluito nel confronto dialettico tra le due posizioni di Agatone e Diotima, lì dove, sconfiggendo in tal modo Agatone, Socrate aveva suggellato nel discorso della sacerdotessa Diotima tutto quanto prima dai vari convenuti esposto.
L’’irruzione di Alcibiade impedisce cioè il diretto contatto conciliante tra i due dialoganti finali (Socrate e Agatone). E insieme sbloccherà lo stallo di un’erotica pacificata di cui Socrate (il vincitore) è signore, impedendo così anche che il discorso su Eros sia così chiuso.
Altre, nuove, mosse riarticolanti il discorso complessivo su eros, sono ora – con l’irruzione di Alcibiade sulla scena del convito – possibili nel gioco del dire su Amore.
- Di fronte a Socrate
Alcibiade è infatti un diverso nuovo punto di vista da cui poter avviare il discorso su Eros. Entra anche lui nel gioco. Riapre il discorso.
Appena accortosi di Socrate, lì al suo fianco, Alcibiade perde però la sua irruenza. Giunto ubriaco e pronto a menar le mani, intenzionato a far sì che si ubriachino tutti con lui, di fronte a Socrate sembra quasi voler fuggire, si alza di scatto quasi spaventato, sembra voglia andarsene. Ma questo impulso dura appena un attimo. Alfine invece si ferma. Rimane,
Alcibiade cioè alla fin fine ci sta. Nonostante Socrate sia lì presente accanto, Alcibiade – anche Alcibiade – entra nel rito che i convitati stanno lì celebrando: anche Alcibiade farà un suo discorso, per poi passare la parola a chi sta alla sua destra.
Alla sua destra, dove però c’è Socrate, che dovrà dunque poi di nuovo a sua volta parlare dopo Alcibiade. Alla destra dunque incombe Socrate, invincibile nei discorsi, impossibile da sconfiggere, inespugnabile, alieno inoltre da ogni ebbrezza perché – si sa – Socrate, pur bevendo, non si ubriaca mai.
- La verità, tutta la verità su Socrate
L’arrivo di Alcibiade implica dunque un passo indietro nella successione dei discorsi, retrocedendo dalla conclusione, quasi si riconoscesse l’aver sinora omesso un punto di vista, quello da Alcibiade incarnato.
Socrate non ha dunque vinto. Ma incombe. Ciononostante Alcibiade ci sta. Ma non si adegua semplicemente al rito del convito, non ne accetta del tutto la regola.
Alcibiade dichiara infatti innanzitutto che non tesserà soltanto, come gli altri prima di lui, a sua volta il suo, ennesimo, elogio di Eros. Alcibiade, a sorpresa, anziché di Eros direttamente, dichiara parlerà invece di Socrate, di lui farà quindi l’elogio.
Alcibiade disloca ovvero il tema. Ma soprattutto disloca il punto.
Il suo dire si Socrate, è chiaro fin dall’inizio, non sarà solo un elogio: subito infatti – assai poco elogiando Socrate – Alcibiade informa che Socrate in realtà mente sempre. Il discorso sarà parresia, sarà dire il vero: lui, Alcibiade – diversamente da Socrate – dirà verità e soltanto quella (tanto che – dichiara Alcibiade – Socrate è autorizzato a interromperlo in ogni momento qualora in un punto qualsiasi del suo discorso egli Alcibiade dicesse il falso).
- Lucida follia d’amore
Il discorso, dopo queste premesse, ha poi dunque avvio. Ha avvio il discorso imprevisto, quello di Alcibiade, l’inizialmente escluso.
Ed il discorso – pur proclamandosi Alcibiade esplicitamente ubriaco e folle (dice “farò un racconto senza precisione e ordine“) – sarà invece lucido e chiaro. Ma soprattutto sarà un monologo, mai da Socrate interrotto, se non forse alla fine. Mai interrotto da Socrate autorizzato a fermarlo qualora Alcibiade inciampasse nel falso.
Il monologo dunque dice verità. Una verità non ancora apparsa in scena. Una verità emergente da un luogo – quello da cui parla Alcibiade – che in fondo nessuno dei convenuti prima di Alcibiade aveva davvero abitato nel suo dire: il luogo in cui si colloca l’amante davvero innamorato perché accecato.
Alcibiade parla cioè col cuore. Ma da lì, pur restando (ebbro) nel culmine di una totale e pura follia d’amore, insieme parla lucidamente.
- L’amante. E l’inquietante
Alcibiade è cioè l’amante.
Alcibiade lo sa, tanto che fin dal primo momento in cui entra nella stanza del convito si dichiara ben consapevole di poter essere anche “ridicolo“, come ridicolo può sempre essere appunto l’amante. Anche Socrate lo sa bene che qui in gioco è l’amante, tanto che anche lui dichiara – smarcandosi così fin da subito, nell’intenzione, dal ruolo di amante – il timore di essere fatto apparire, dal discorso che Alcibiade farà, anche lui Socrate ridicolo.
Il discorso che Alcibiade fa non è però ridicolo per niente, nè fa apparire tale Socrate.
Il discorso è invece profondo e vero. Narra innanzitutto dell’atopia (la stranezza) di Socrate. Fuoriuscendo dal puro gioco del concetto, Alcibiade parla per immagini e paragona Socrate al satiro Marsia, che al suo interno è altro che all’esterno; esternamente insolente, internamente divino (laddove il dio è – si sa – follia). Come Marsia, perciò Socrate ammalia. Scopre chi ha bisogno degli dei e dell’iniziazione ai riti mistici e tutto ciò solo coi discorsi, coi socratici discorsi che trattano argomenti che toccano la mente e il cuore; tanto da mettere l’anima in grande tumulto e far pensare non più vivibile la vita che si viveva prima. Socrate, come una Sirena che tiene avvinti a sé, spinge a voler cambiare vita, perciò fa vergognare di sè quando, lontano da lui, ci si comporta diversamente da quel che si è capito essere giusto.
Così Alcibiade descrive Socrate: un inquietante Socrate.
- Il segreto di Socrate
Ma Socrate non è da Alcibiade solo così, semplicemente, descritto. Il discorso di Alcibiade è di chi conosce bene Socrate. E lo conosce perché ne è stato avvinto.
Alcibiade è l’amante. Ma è amante che si sa non corrisposto (tanto da dire, riguardo a Socrate, che “mi farebbe piacere non fosse più tra noi, ma se non ci fosse la mia angoscia sarebbe maggiore. Non so come comportarmi con lui“).
Alcibiade perciò soffre, ma non è più solo accecato. Egli, proprio perché innamorato ha indagato e colto la profondità di Socrate, conosce ormai Socrate (“mentre” – dice – “nessuno di voi lo conosce“). Alcibiade, poiché amante, sa. Sa che Socrate, al di là di ogni apparenza contraria, è in realtà doppiezza.
Perchè Socrate sembra innamorato dei belli e ne è sconvolto, sta loro vicino; ma dentro è temperanza. Se uno è bello in realtà non gli importa nulla, per lui bellezza e ricchezza non hanno alcun valore. Socrate inoltre ironizza, prende in giro e può sembrare perciò dappoco oppure un burlone, ma fa intuire dentro si immagini divine, meravigliose, bellissime, le quali sono ciò che portano, chi di ciò si avvede, a seguirlo da lui sedotto.
Socrate ti avvicina, ti interpella, ma sempre per poi ritrarsi, per poi a poco a poco avvicinarsi ancora, irretendo chi lo amasse nel “morso della vipera” che può comprendere solo chi lo ha provato. E Socrate morde, morde coi suoi discorsi filosofici che “afferrano selvaggiamente” il giovane e lo portano a poter fare qualsiasi cosa per la follia e entusiasmo bacchico della filosofia.
Ma il morso dà anche dolore, un dolore – il dolore che fa parlare Alcibiade – che fa parlare (parlare sinceramente del dolore) morsi nell’anima, compresi solo dal simposio degli iniziati ad eros.
- L’amante a nudo
Alcibiade nella relazione con Socrate non ha invece avuto – così dice Alcibiade – doppiezza. Ha sinceramente cercato solo di essere, una volta innamorato, corrisposto. Di essere a sua volta amato, cercando di adeguarsi al modello di vita che Socrate gli indicava, modello che perciò lo attraeva, ma modello col quale non riesce a collimare.
Alcibiade non è doppio, ubriaco è cioè sincero.
Ammette di aver cercato di sedurre Socrate, anche per questo motivo cercando di assecondarne gli insegnamenti. Ma tutto ciò invano. Socrate non ha mai ceduto, sempre ha agito nulla più che al suo consueto atopico modo.
Ammette infine, in una sincerità disarmante e estrema, di essersi alfine completamente esposto. Abbandonati tutti i sotterfugi, deposta ogni maschera – così narra Alcibiade – ha dichiarato infine direttamente a Socrate il suo desiderio. Al culmine di una iniziazione e di una maturazione il suo desiderio lo ha esposto nudo, per quel che è.
- “Non abbia a sfuggirti… che io non sono niente” (219a)
Ma è a quel punto, in questo svelamento, coricatosi Alcibiade insieme a Socrate, in un’intimità ottenuta, che – racconta Alcibiade – anche Socrate getta la maschera.
Nell’intimità, accanto ad Alcibiade dichiarato amante pronto a concedersi, Socrate svela “non essere l’oro” che Alcibiade vorrebbe “scambiare col bronzo” (bronzo, non oro, che dunque Alcibiade, così sprezzato, è). Socrate svela di non essere ora, ma bensì – qui lo svelamento è estremo – di “esser niente“.
Tolta la maschera, Socrate rivela il suo essere vuoto. Rivela dietro le pose dell’amato (in questo caso Socrate) esservi nulla più che niente.
Socrate tuttavia – narra Alcibiade – prende ancora tempo. Sembra quasi oscillare se cedere all’amante o meno. Perciò dorme sì insieme ad Alcibiade, ma castamente; in un gesto di intimità sì e fiducia, ma anche di nuovo sprezzando le grazie di Alcibiade il bello, nella superiorità che l’amato, sicuro e pure un po’ superbo, gode sull’accecato amante.
(… continua…)
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