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[È stato appena pubblicato (anche in ebook) dall’editore romano Nottetempo l’ultimo pamphlet del noto filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han (teorico dell’ipermodernità e docente all’Università delle Arti di Berlino) dal titolo (apparentemente vattimiano) La società della trasparenza (Transparenzgesellschaft, Berlin 2012). L’argomentazione, con numerosi riferimenti teorico-critici (impliciti) e dialettici in senso hegeliano (espliciti), mostra non poche affinità con i temi oggetto di riflessione recente su Prismi. Pare dunque interessante proporne un estratto, utile anche per un confronto con quanto si pubblica, si è scritto e si scrive ancora nel nostro paese in merito alle virtù della trasparenza (da Popper a Vattimo, passando per le retoriche e gli outing delle case di vetro come quella del “Grande Fratello”). Accanto a vari motivi di accordo (come la funzione socialmente stabilizzante della pratica consistente nell'”emettere sé” o la metafisica della presenza insita nella società della trasparenza) fra i possibili nuclei di controversia (anche per la tonalità piuttosto sentenziosa) v’è soprattutto la tesi – derivante in primis dalla teologia politica di Carl Schmitt – che la trasparenza necessaria alla vita democratica sia sempre e comunque “coercizione sistemica” e che la politica abbia bisogno degli arcana imperii; oppure l’altra tesi, performativamente contraddittoria, per cui la teoria – ogni teoria – sarebbe il frutto di una decisione e quindi di una violenza che condurrebbe inevitabilmente alla “fine della teoria”. Resta il fatto che Byung-Chul Han individua con maggiore precisione epistemica una risposta già parzialmente formulata nel precedente lavoro sulla Società della stanchezza e cioè che l’attuale liquefazione delle capacità critiche dell’individuo di cui vive la liquid modernity deriva proprio dal fatto che “niente è impossibile”, cioè dall’eccesso di positività e non certo da un sovraccarico di negativismo o di sfiducia nel futuro. Il testo, riformattato per la lettura su blog, corrisponde alla sezione intitolata “La società del positivo”, la cui versione PDF è liberamente scaricabile dal sito dell’Editore che però non riporta i riferimenti bibliografici (A.B.)].

Nessun’altra parola d’ordine oggi domina il discorso pubblico quanto il termine “trasparenza”. Essa è enfaticamente invocata soprattutto in riferimento alla libertà d’informazione. L’onnipresente richiesta di trasparenza, che si radicalizza nella sua feticizzazione e totalizzazione, risale a un cambiamento di paradigma che non può essere circoscritto all’ambito della politica e dell’economia. La società della negatività cede, oggi, di fronte a una società nella quale la negatività è costantemente soppressa a vantaggio della positività. Perciò, la società della trasparenza si manifesta in primo luogo come società del positivo.

TransparenzGesellschaftLe cose diventano trasparenti quando si liberano da ogni negatività, quando sono spianate e livellate, immesse senza opporre alcuna resistenza nei piatti flussi del capitale, della comunicazione e dell’informazione. Le azioni diventano trasparenti quando si rendono operazionali, quando si sottopongono a un processo di misurazione, tassazione e controllo. Il tempo diventa trasparente, quando è ridotto alla successione di un presente disponibile. Cosí anche il futuro è positivizzato nel presente ottimizzato. Il tempo trasparente è un tempo senza destino e senza eventi. Le immagini diventano trasparenti quando – liberate da ogni drammaturgia, da ogni coreografia e scenografia, da qualsiasi profondità ermeneutica, in definitiva da ogni senso – sono rese pornografiche. La pornografia è il contatto immediato tra immagine e occhio. Le cose diventano trasparenti quando rinnegano la propria singolarità e si esprimono interamente attraverso un prezzo. Il denaro, che rende ogni cosa equiparabile all’altra, abolisce ogni incommensurabilità, ogni singolarità delle cose. La società della trasparenza è un inferno dell’Uguale.

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Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni

(Etica Nicomachea 1155a 5-6) .

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Così ci dice Aristotele, per il quale dunque vivere avendo amici, potendo scegliere, è preferibile al possedere tutti gli altri beni senza avere amici. Perciò l’amicizia sarebbe quindi in fondo bene di gran lunga preferibile ad ogni altro bene concepibile (visto che è preferibile persino alla somma, ma senza amici, di tutti gli altri beni messi insieme).

Sembrerebbe dunque che Aristotele sostenga che vivere avendo amici è in ogni caso, e quindi senza eccezione, situazione preferibile al vivere non avendone, per cui l’amicizia dovrebbe essere sempre, tra tutti i beni disponibili, la prima opzione per chiunque. L’amicizia è dunque, secondo Aristotele, importantissima e non a caso gli interi libri VIII e IX dell’Etica a Nicomaco sono appunto dedicati alla trattazione della tematica dell’amicizia, che è dunque da Aristotele  intesa come esperienza di importanza fondamentale per l'”animale ragionevole” in cui l’uomo consiste, relazione umana per eccellenza, tanto da definirla anche essere innanzitutto una necessità (anzi: “cosa necessarissima per la vita” (1155 a4).

Eppure, sempre nell'”Etica”, Aristotele dichiara anche che «pur essendoci care entrambe le cose, gli amici e la verità, è dovere morale preferire la verità» (I, 4, 1096). Una variante dunque dell'”amicus Socrates, sed magis amica veritas” che Ammonio nella “Vita di Aristotele” attribuisce essere stato detto di Platone (o dell'”amicus Plato, sed magis amica veritas” attribuito, ma in modo sembrerebbe poco attendibile, ad Aristotele stesso).

Ma in che senso l’amicizia sarebbe dunque per Aristotele necessaria? E come fa a essere necessaria se contemporaneamente può essere sacrificata, fosse pure sull’altare della veritas? Ma cosa è poi questa necessaria amicizia, di cui ci parla il greco Aristotele, vissuto più di due millenni fa, in tempi così lontani da noi, tra genti di cui è rimasta solo qualche traccia? Ci parlano e interessano ancora i suoi discorsi sul tema?

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Di certo anche oggi comunque ci interessa l’amicizia. E in fondo tanto più quanto più le dinamiche sociali prevalenti tendono a renderla sempre più relegata nelle dimensioni residuali del privato, che però sono peraltro per lo più le dimensioni dove cerchiamo la nostra realizzazione più profondamente e intimamente personale, la nostra vera felicità. E tanto più quanto più, inoltre, le dinamiche suddette la rendono persino di fatto spesso sostanzialmente impraticabile, sacrificata all’altare di altre esigenze, subordinata ad altro (anche solo banalmente al proprio rapporto di coppia o ai figli, o al lavoro o al tempo che non c’è). Per cui ancor oggi dunque, insieme, si diventa, come Aristotele e Platone, più amici di qualcos’altro che dell’amico. Ma non per questo non ci rimane un rammarico o una nostalgia per quanto trascurato o perduto.

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