Siamo tutti abituati a sentir parlare di “valori”, “crisi dei valori”, “valori spirituali” e, soprattutto, del “valore della vita”. In Italia c’è persino un partito che si richiama esplicitamente ai “valori” come criterio fondante delle proprie scelte politiche: nel suo statuto si può leggere che tale formazione politica intende integrare “i tradizionali valori di libertà, uguaglianza, legalità e giustizia con i valori nuovi del nostro tempo: pari opportunità, sviluppo sostenibile, autogoverno, solidarietà e sussidiarietà, responsabilità, iniziativa, partecipazione ed europeismo, nel quadro di un sempre più avanzato federalismo europeo” (Statuto nazionale dell’Italia dei Valori, art. 2).
Ma che cosa sia un “valore” qui, come altrove, non viene chiarito – né si spiega la differenza tra “valore” e “principio”. Perché allora la nostra Costituzione parla di “principi” e non di “valori”? E perché in Germania questa differenza ha scatenato un dibattito che dura ancor oggi? Questione di lana caprina o questione sostanziale? A me pare che il problema sia innanzitutto filosofico, e lo sottopongo ai lettori di Prismi, invitandoli a intervenire su questo tema, a mio avviso di centrale importanza. Per cercare di impostare correttamente il problema e orientarsi fra principi, norme e valori, mi baso provvisoriamente su un testo la cui chiarezza forse ci può aiutare in tale non facile impresa. Si tratta di una conferenza, risalente al 1959, La tirannia dei valori (Die Tyrannei der Werte) di Carl Schmitt, il celeberrimo filosofo del diritto tedesco autore di Teologia politica (1922), Categorie del politico (1932) e di Il Nomos della terra (1950). In italiano il testo è disponibile nella collana “Biblioteca minima” di Adelphi (n. 27, € 5,50). Rimando alla postfazione del compianto Franco Volpi non solo per le necessarie informazioni sul dibattito giuridico a partire dal quale Schmitt elaborò questo scritto, ma anche per un inquadramento più ampio della storia del concetto di “valore”, impossibile in questa sede.
La tesi centrale di Schmitt, ripresa in qualche modo da Heidegger, è che il concetto di valore sia una sorta di surrogato del “metafisico”, un concetto introdotto all’inizio del Novecento dai neokantiani (cfr. W. Windelband, Was ist Philosophie?, 1882; H. Cohen, Ethik des reinen Willens, 1904; H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, 1892, e Vom System der Werte, 1913) e sviluppato poi dal personalismo fenomenologico in direzione di un’etica materiale dei valori (in part. da Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, 1913-16). Scrive Schmitt:
“Una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, minacciava la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo al regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno dei valori come regno della validità ideale. Era un tentativo di affermare l’uomo come creatura libera e responsabile, non già in un essere, ma quantomeno nella validità di ciò che veniva chiamato valore. Un tentativo, questo, che può senz’altro essere definito un surrogato positivistico del metafisico” (pp. 59-60).
Il “valore”, dunque, sarebbe il tentativo filosofico di recuperare la libertà e la responsabilità a fronte della minaccia costituita da una scienza che rinuncia programmaticamente ai giudizi “di valore”. Che all’origine di tutto vi sia Nietzsche con il famoso tema della décadence, cioè della “crisi dei valori”, è evidente dalle sue sentenze sul nichilismo definito infatti “svalutazione di tutti i valori” (cioè dei valori umanistici tradizionali: il buono, il giusto, il vero), al quale bisogna contrapporre una dottrina della Umwertung aller Werte, una trasvalutazione di tutti i valori (Der Wille zur Macht) in grado di lasciare “aperto” il senso ultimo del divenire.
A fronte di ciò, come insegna Max Weber, i giudizi di valore diventano totalmente soggettivi, frutto cioè dell’arbitrio di un individuo che si postula libero e capace di giudizio e decisione. Non essendo più pensabile un cosmo noetico di tipo platonico, un regno delle idee separato in cui le pure forme possano venir contemplate onde modellare il retto agire (l’orthos praxis), la validità viene implementata integralmente nella sfera immanente del soggetto. Secondo Weber è proprio questa posizione-fondazione soggettivistica dei valori (Wertsetzung) a far sì che i giudizi di valore non siano altro che decisioni, in ultima analisi arbitrarie, a partire dalle quali non può non scatenarsi un nuovo bellum omnium contra omnes, ben peggiore, come nota Schmitt, di quello hobbesiano (p. 50). E’ il ben noto politeismo dei valori: la razionalizzazione del mondo ha smitizzato gli antichi dèi e li ha costretti nello spazio ristretto dei “valori”: ma “i vecchi dèi”, scrive Weber nella Scienza come professione, “risorgono dalle loro tombe e riprendono la loro antica battaglia, ma disincantati e con nuovi strumenti bellici… terribili prodotti della scienza avalutativa”.
Secondo Schmitt, che tenta di individuare una “genealogia della tirannia dei valori”, proprio questa diagnosi “hobbesiana” di Weber è all’origine dei tentativi di fondazione oggettiva del concetto di “valore” (Schmitt menziona N. Hartmann e M. Scheler; in Italia un tentativo simile è stato tentato, per quanto ne so, da N. Abbagnano). Dall’utile al sacro, dall’inorganico allo spirituale, è tutto un gerarchizzare, un cercare un basso e un alto, un disvalore e un valore, radicandolo in una presunta o postulata oggettività. La filosofia dei valori diviene in tal modo una Weltanschauung, un’intuizione o visione del mondo, che però, pur nel tentativo di fondazione oggettiva, resta sempre soggettivistica, perché i valori sono sempre “per qualcosa o per qualcuno” (p. 52). La nostra mente sembra venir costretta, soggiogata, alla malìa del pensare per valori. Questo dipende, secondo Schmitt, dal fatto che “il carattere specifico del valore risiede… nell’avere non già un essere, ma soltanto una validità” (pp. 52-53): un valore non è, un valore si impone. “Chi dice valore vuole far valere e imporre” (p. 53). Il “politeismo” weberiano diventa “tirannia”, perché non lascia spazio a mediazioni: ogni valore deve imporre se stesso, ogni valore è una lotta hegeliana per il riconoscimento che si combatte “per la vita e per la morte”. Perciò un valore non può restare fermo: posta la sua natura soggettiva (anche nelle fondazioni oggettive o materiali di Hartmann e Scheler), il valore non può che essere im-posto, “fatto valere”, anche con la violenza. E’ a questa imposizione violenta che Schmitt pensa ricostruendo la genealogia della filosofia dei valori: “Le virtù si esercitano; le norme si applicano; gli ordini si eseguono; ma i valori vengono posti e imposti” (p. 53).
Il valore, poi, richiede sempre un Angriffspunkt, un “punto di attacco” già posto, prestabilito, predefinito e inattingibile, un “punto di vista” che fa della filosofia dei valori un “puntinismo” (p. 54) che squalifica a priori come cieco chi non vede tali valori (p. 63). Qui si capisce bene, allora, la differenza tra “valore” e principio”: mentre questo è una sorta di evidenza originaria, indimostrabile, ma perfettamente razionale perché (come insegna Aristotele) su di esso si basa qualsiasi dimostrazione (e, quindi qualsiasi insieme di norme giuridiche, etiche, ecc.), il primo ha una struttura di posizione (“tetico-ponente”, la definisce Schmitt) tale da richiedere l’imposizione della sua attuazione. I principi (“norme di rango superiore alla cui luce possono giustificarsi altre norme”, come li definisce Habermas) guidano, indirizzano, orientano, mostrano, consigliano; le norme prescrivono; i valori, infine, impongono e costringono a imporre, decidono e recidono. Ogni orientamento ai valori è perciò un taglio drammatico di possibilità, una riduzione drastica di complessità, una recisione netta di ciò che potrebbe essere altrimenti. Se i principi (axíoma) sono logicamente il fondamento della dimostrazione, e politicamente-praticamente garanzia della libertà e del pluralismo, i valori – sia in senso logico che in senso pratico – difendono sempre e solo se stessi costringendo chi si fa loro portatore a difenderli strenuamente e finanche con la forza perché, evidentemente, ogni posizione valoriale implica una svalutazione di tutto ciò che non rientra nel sistema di valori prefissato, un sistema relazionale che è peraltro già dato con la posizione originaria del valore stesso. Ecco perché il politeismo dei valori di Weber è espressione di “onestà intellettuale” (p. 54): Weber riconosce che la pluralità soggettivistica dei valori non può che relativizzarli e la relativizzazione produce conflitto, non tolleranza. Il politeismo dei valori non è per niente la loro convivenza pacifica.
Il valore è pertanto una posizione assoluta alla Fichte: pone se stesso e, ponendo sé, pone anche l’altro da sé, il non-valore. (Sarebbe interessante, a questo punto, discutere qui la nota critica dello Hegel jenese a Fichte nella Differenzschrift, mostrando le analogie con la critica di Schmitt al valore come autoposizione. Ma forse mi attirerei le solite accuse di scrivere troppo difficile, ecc., quindi lascio stare). Perciò “l’anelito del valore alla validità è irresistibile, e il conflitto tra valutatori, svalutatori, rivalutatori e valorizzatori è inevitabile” (p. 59).
Dal punto di vista giuridico la distinzione tra principi, norme e valori è importantissima, perché una legislazione che si fondi su “valori” anziché su principi e norme (si veda in merito J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, pp. 302 sgg.) porta inevitabilmente alla criminalizzazione e poi anche all’annientamento di tutto ciò che fuoriesce dall’ambito semantico definito dalla nozione vischiosa di valore. L’esito non può che essere, allora, la “tirannia della virtù”, come aveva visto già Hegel (che Schmitt nella sua conferenza non menziona mai) nelle sue celebri Lezioni sulla filosofia della storia. La natura totalizzante e quindi anche potenzialmente totalitaria del “valore” fa sì che la negazione di un valore negativo divenga immediatamente un valore positivo: ma se questo “è matematicamente ineccepibile, dato che meno per meno dà più” (p. 64: si tratta di una questione matematica e speculativa di capitale importanza, sulla quale mi riprometto di tornare), la filosofia dei valori non può non innescare una logica binaria di tipo distributivo per cui il nemico del mio nemico è mio amico (e il grande teorico, sin dagli anni Venti, della logica Amico-Nemico e del Führerprinzip ne sapeva ben qualcosa: qui bisognerebbe approfondire attentamente la vexata quaestio dei rapporti di Schmitt col nazismo: ma si cfr. C. Galli, Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, il Mulino, Bologna 2008): in questo modo si finisce col “ripagare il Male con il Male, trasformando così la nostra terra in un inferno, ma l’inferno in un paradiso dei valori” (p. 64).
L’incursione del giurista in munere alieno filosofico è stata salutare (ex captivitate salus!): Schmitt riesce infatti a rendere nitidi i malcerti confini di un concetto-spugna, quello di “valore”, da cui la filosofia si è sempre lasciata ipnotizzare ed assorbire, senza mai coglierne le potenzialità nichilistiche e – anzi – credendolo il vero antidoto al nichilismo portato da una razionalizzazione avalutativa e senza freni che dissolve ogni “assoluto”. Il “valore” è con tutta evidenza un surrogato della metafisica, come aveva ben compreso Heidegger, che l’epoca avalutativa della tecnoscienza ha bisogno di introdurre per poter legittimare se stessa (e Schmitt ha buon gioco a rilevare che la natura tetico-ponente del valore fa sì che persino l’avalutatività divenga un valore, in un rovesciamento dialettico degno di Hegel). L’“Epimeteo cristiano”, come si autobattezzava lo stesso Schmitt (Volpi, p. 79), porta alla luce la mistificazione insita in questo “comodo grimaldello che guasta tutto” (J. Freund, cit. da Volpi, ibid.). Proprio in quanto “preferenze intersoggettivamente condivise”, i valori esprimono una variabilità e una contingenza che implica un’acquisizione o una realizzazione “tramite un agire finalistico” (Habermas, Fatti e norme, p. 303). I valori, in tal modo, vanno attentamente vagliati e sottoposti a critica, senza accettare come autoevidente alcuna filosofia del valore: questa è sempre soggetta al rischio di trasformarsi in una trappola mentale che imprigiona tanto l’agire quanto il pensare, costringendoli nel gioco della valorizzazione-svalutazione-neutralizzazione, a scapito degli stessi valori che si crede di poter difendere. Una fondazione etica del diritto e della democrazia deve passare, come ha mostrato Habermas, attraverso tutt’altra strada che non la ripresa di un’etica dei valori: la strada di una fondazione linguistico-discorsiva. Il diritto, come la democrazia, ci insegna Habermas, è una mediazione sociale tra fatti e norme, non tra fatti e valori: fatti e valori non sono mediabili (o, meglio, la loro mediazione distrugge la natura stessa del diritto). Una lezione, questa, su cui bisogna riflettere attentamente, soprattutto quando principi e norme sono sottoposti a una torsione (vedi recenti vicende politiche italiane) che rischia di distorcerli definitivamente. E una democrazia distorta non è più una democrazia.
“Non ci sono più valori”, spesso si sente dire. E dunque nichilismo, in uno almeno dei sensi con cui il nichilismo viene da Nietzsche definito (“i valori si svalutano”).
Ma è poi vero che non ci sono più valori?
A me non pare proprio che le cose stiano così. Anzi, se ho bene inteso il senso del circostanziato e interessante intervento di Alessandro, il nostro contesto anche a me pare essere piuttosto quello di una proliferazione di valori, di un politeismo dei valori, weberianamente inteso.
Per cui non è tanto che manchino i valori, anzi tutt’altro: il nostro è tempo in cui si può anzi sostenere che di valori ce ne sono molti, e finanche troppi.
E questo in fondo non è strano: ce ne sono tanti perchè appunto sono valori che, per definizione – come ci ricorda Nietzsche – non sono, ma valgono. E dunque per esser posti (proposti o imposti) non hanno il vincolo di adeguarsi all’essere, ma a loro basta l’esser voluti, dovuti. E al poter dover-essere non c’è limite, se esso si pone programmaticamente sempre come quel sovrapporsi all’essere – quasi da questo debordando nel mondo del Sollen, dei valori appunto – che è appunto il dovere.
Valori dunque ce ne sono a iosa. Ma inoltre sono tra loro, quando e in quanto inconciliabili (e, in alcune circostanze almeno, necessariamente inconciliabili lo sono) per lo più in conflitto.
E il punto è che il conflitto ha esiti. All’atto pratico cioè, laddove in base ad essi si impone una scelta, alla fine (e anche quando magari in parte si eludono l’un l’altro, producendo un’eterogenesi dei fini) ci sono valori vincenti e valori perdenti. Per cui valori dominanti poichè il conflitto può implicare quale suo esito che un valore, nei fatti, si imponga più di altri. O si imponga su tutti gli altri.
Sempre c’è un valore almeno tendenzialmente vincente. E magari vincente è valore che a volte non entra neanche negli elenchi dei valori (poli)teisticamente intesi. Penso al valore-merce (al dio denaro insomma), che ha valenza etica e non solo economica (e che impone l’etica prevalente dell’economico) e che, nella misura in cui diventa onnipervasivo, diventa l’equivalente generale che dà valore a tutto – anche gli altri valori – anche perchè meglio di altri consente la quantificazione che regge il paragone tra le cose e in tal modo organizza un mondo, una gerarchia, e più funziona come tale equivalente più funziona come connettivo che produce nel suo sistema la subordinazione a sè degli altri valori, che però è pure per essi un’inclusione.
Questa considerazione (e senza approfondire la questione del rapporto tra valore dell’economico e del tecnico e dell’eventuale loro relazione e/o conflitto) mi porta a sottolineare che la dinamica del politeismo dei valori non è solo quella dell’esclusione dei valori non prevalenti o non accettati. Ma anche quella di una loro traduzione (e subordinazione) nel linguaggio del valore prevalente. Ove questa inclusione-traduzione renderebbe dunque la proliferazione delle alternative un’apparenza, un gioco di superficie che nasconde un’assimilazione e un’omologazione più profonde.
In entrambi i casi comunque certo l'”invenzione dei valori” succedanei della fine della metafisica produce conflitto e/o struttura di dominio. Produce insieme necessaria attribuzione di disvalore. Per cui trovo molto interessante l’idea di tentare un depotenziamento dei valori (ma come farlo senza un depotenziamento della volontà che li vuole?).
Dando spazio invece alla guida normativa del principio? Anche questo mi sembra di poter condividere, ma non so se leggo correttamente la proposta quando lo intendo come un avere a disposizione delle strutture di ragionamento normativo e delle tendenze all’azione capaci di muoversi ponendosi innanzitutto in ascolto non pre-determinante delle diverse situazioni che via via si danno. Con la piena consapevolezza della sostanziale irriducibilità di ognuna di tali situazioni a qualsiasi altra, e con la cautela che nasce dall’accorgimento di non voler dire agli altri ciò che debbono essere o fare (accanto alla prudenza necessaria che chiede sicurezza, e aperture di opportunità e conseguenti regole finalizzate ad esse).
Certo: ciò detto, resta ora da affrontare la vera questione: del perchè si debbano preferire i principi a valori (o perchè, per esempio, si debba uscire da una “logica binaria”, valoriale)
P.S. (e per inciso, circa questione appena accennata, ma a me pare invece decisiva): ma perchè meno per meno deve dare più? La negazione della negazione perchè non è da concepire invece come una negazione che si ripete due volte, come un meno meno, meno ripetuto? Far violenza contro la violenza non è violenza (cioè due violenze)?
Centrale e delicatissima è la questione dei valori sollevata da Alessandro.
Su un punto almeno credo di concordare con lui: quando prende le distanze da una diffusa retorica del “torniamo ai valori”, quasi che – e cito Tremonti (che a occhio e croce deve aver letto Schmitt) – i valori si possano trovare “come fiori in un prato”. Ché, se poi chiediamo quali valori, veniamo sommersi da un pandemonio di proposte, cui non può che seguire – non fosse altro che per stanchezza – un altrettanto assordante silenzio, quello in cui non resta che un unico valore, non più proposto, ma imposto, un po’ come nella favola delle rane e del re travicello.
Ciò che, invece, non mi convince è la distinzione tra valori e principii, i primi responsabili di ogni prevaricazione, i secondi, invece, garanzia di libertà e democrazia. Non ho letto il testo di Schmitt recensito da Alessandro, ma sospetto che alla critica del concetto di valore Schmitt non faccia seguire alcun appello a principii, tanto meno a quelli dell’agire in vista di un’intesa.
Di fatto, la distinzione tra valori e principii è tutt’altro che scontata. Se pure va fatta, credo che debba emergere dialetticamente, pena lo svuotamento di significato della distinzione stessa. Voglio provare ad articolare qui di seguito il mio pensiero al riguardo, perché credo che, nel chiarire la posizione di Schmitt, essa si smarchi decisamente da quella di Habermas che Alessandro invece arrischiatamente gli avvicina.
Principio (arché, Grund/Anfang) significa ciò che è primo temporalmente, ma anche ciò che ordina e dà ordini. Se c’è qualcosa come un principio, esso non può trarre il diritto a esser primo che da sé stesso; ed è proprio questa autoreferenzialità, questa autoevidenza, questa fattizia testardaggine ad assegnare il primato al primo. “Io sono colui che sono”, dice la voce di Dio dal roveto ardente. Ma che cos’altro è questo evento (Er-eignis), se non il darsi di qualcosa che di fatto non siamo in grado di negare, che ha la forza per imporsi su tutto il resto (che pur cerca di porsi)? Il principio, dunque, è principio perché vale, perché è più forte: è valore perché al suo apparire tutto attorno si trasforma in risorsa per il suo conseguimento. Esso è il per-sé in vista del quale tutto il resto trae senso.
Ora, è chiaro che di tali principii (= valori = fatti) ce ne sono tanti e che questo è, a sua volta, un fatto, forte abbastanza perché non lo si possa misconoscere e non ci si possa esimere dal trarne delle conseguenze. Ma, mentre da un principio/valore/fatto derivano come conseguenze altri fatti che si sforzano di adeguarsi ad esso, da molti principii – inevitabilmente in conflitto – deriva lo sforzo di adeguarsi al principio dei principii, ossia a ciò che fa sì che tutti siano/pretendano di essere principii. Tale sforzo – che coincide con la dialettica, indifferentemente platonica, kantiana o hegeliana – è guidato dall’idea del Valore con la maiuscola. E anche questo sforzo, questo eros, è un fatto. È il fatto (valore/principio) della ragion pura. È l’appello alla libertà come incondizionatezza, come autoreferenzialità.
Ci troviamo a questo punto di fronte a valori che pretendono di valere di per sé (momento astratto-intellettuale), ma anche a un valore, la libertà, che pretende di negare tutti quei valori, decostruendone la pretesa autoreferenzialità (momento negativo-razionale). Pretese che si oppongono a pretese. Disperante. [E la disperazione inerente a tale consapevolezza, se è propria di ogni singolo pensatore che si risvegli dal sonno dogmatico, in circostanze particolari si diffonde e si intensifica fino a diventare disperazione epocale o generazionale. È il caso del decadentismo in genere e di Weber in particolare: l’ideale della Wertfreiheit non è che un valore tra gli altri, quello specifico di cui si sostanzia il suo Beruf di scienziato e grazie al quale ha potuto diagnosticare la malattia della nostra modernità contemporaneamente a quella del suo stesso diagnosticare].
Eppure, io credo (credo di credere) che i due momenti non siano sullo stesso piano, giacché, mentre i valori sono niente, il valore-libertà coincide con la consapevolezza tanto del niente-di-valore dei valori, quanto del proprio niente. Finché la libertà è un semplice valore come gli altri è libertà negativa (cfr. i Lineamenti di filosofia del Diritto di Hegel, par. 5) e a guidarla è solo l’etica della convinzione: io so il nulla di ciò che mi circonda ed è per me un dovere dimostrarlo con la “furia del dileguare” (sempre Hegel, Fenomenologia, La libertà assoluta e il terrore). L’etica della responsabilità sarà invece frutto della piena consapevolezza anche del proprio nulla e della possibilità che così si apre di trattenere dal baratro questo fantasmagorico quasi-niente sobbarcandosene l’assurdità (ecco l’Aufhebung), perché si scommette nello sviluppo della medesima consapevolezza anche in tutti gli altri portatori di valore.
È in questo quadro che va compresa la filosofia di Schmitt e – credo – anche la sua adesione al nazismo. Come Hegel sceglie di ritagliarsi il ruolo servile di “nottola di Minerva”, anch’egli vuole superare il razionalismo pro-meteico facendosi Epimeteo (anzi, Epimeteo cristiano). La prospettiva escatologica che deve guidare ogni credente, infatti, lungi dal bloccarlo in un nichilistico contemptus mundi, ravviva in lui il rispetto per ogni posizione di valore in quanto espressione pur contraddittoria dell’umano anelito alla libertà. Non spetta a nessuno di noi, infatti, accelerare l’apocalisse della storia, quasi potessimo sin d’ora discernere il grano dal loglio. Al contrario, consapevoli della fragilità della nostra fede, dovremmo esser grati a ciò che, trattenendo l’apocalisse (il katechon, concetto centrale in Schmitt), concede a tutti noi una dilazione. La radice profonda (esistenziale”) di questi valori, però, non è l’economico, né il giuridico, né l’estetico, né il religioso, bensì il ‘politico’, quella forza – letteralmente satanica – che produce il “noi” attraverso la contrapposizione con “altri”. Di qui il paradosso di un cristiano che, nel suo imperscrutabile foro interiore, può anche decidersi per esso e per la guerra, fosse pura la più atroce, badando unicamente a “garder l’amour en faisant les gestes de la haine” (Gustave Thibon, il filosofo-contadino dell’Ardèche citato in una nota della terza parte de Il nomos della terra, Adelphi).
Per Schmitt non si tratta di giustificare né il ‘politico’, né la guerra né il nazismo, proprio perché non ci sono valori/principii trascendenti cui queste realtà possano essere ricondotte, ma solo fatti, datità esistenziali, che possono però essere comprese da chiunque confessi a sua volta la propria fatticità. Scrive Schmitt in uno dei passaggi più intensi de Il concetto di ‘politico’ (contenuto nel volume Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, p. 133): “Non esiste uno scopo razionale, né una norma così giusta, né un programma così esemplare, né un ideale sociale così bello, né una legittimità o legalità che possa far apparire giusto che gli uomini si ammazzino a vicenda. Se una distruzione fisica di questo genere della vita umana non deriva dall’affermazione esistenziale della propria forma di esistenza nei confronti di una negazione altrettanto esistenziale di tale forma, in tal caso essa non può neppure trovare legittimazione. Una guerra non può fondarsi neppure su norme etiche o giuridiche. Se esistono realmente nemici nel significato esistenziale qui inteso, allora è comprensibile, ma solo politicamente comprensibile, che essi siano eliminati fisicamente e combattuti”. E il nemico, inteso “nel significato esistenziale”, è la “differenza etica” di cui parla Hegel (citato da Schmitt ibidem, p. 147 e a cui, a mio parere, egli deve tantissimo), è quel “nec tecum nec sine te” che sostanzia ogni umana croce e che solo la fede in una Storia della salvezza può trasfigurare in una rosa.
Se dunque in Schmitt la riduzione dialettica dei valori al ‘politico’ consente di aderire “responsabilmente” ad essi, non per essi stessi, ma per rispetto verso coloro (noi) che ad essi temporaneamente si affidano; del tutto aliena alla sua prospettiva è la pretesa di declassare i valori a istanze intersoggettive contingenti, per subordinarle a principii e norme discorsivamente fondati, come pretende il liberalismo illuministico e i suoi epigoni (Habermas). Secondo Schmitt, infatti, è illusorio credere che si possa superare l’inimicizia e fondare la città sedendosi ad un tavolo o in un qualche emiciclo a discutere, giacché l’inimicizia è semplicemente la condizione stessa del nostro ec-sistere ed essa imperiosamente riemerge ogni qual volta l’agire discorsivo (ma anche economico o giuridico) rischia di concludersi nichilisticamente con la distruzione di ogni differenza. Tutt’al più si può pensare ad una dilazione infinita della decisione, come nel dialogo eterno dei romantici tedeschi (Novalis e A. Mueller). Ma poiché questo è concretamente impossibile, Schmitt è convinto che ogni appello ad una verità trascendente non sia che un trucco della borghesia liberale (“la clasa discutidora” di Donoso Cortés, citato da Schmitt in Teologia politica, testo contenuto sempre ne Le categorie del ‘politico’, p. 82) che, nella lotta contro quell’espressione storica particolare del ‘politico’ che è lo Stato moderno, pretende di combattere il ‘politico’ tout court in nome della “umanità”. In realtà, nella discussione infinita il liberalismo trova la garanzia che il potere resti nelle mani dei sapienti e dei ricchi, che mascherano la loro politicissima lotta contro i poveri e gli ignoranti, come lotta contro ignoranza e povertà per il progresso dell’umanità.
E tale valore “umanità” è, a differenza di altri valori, particolarmente pericoloso in quanto è “uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico” (Il concetto di’politico’, p. 139). Combattere per il Re o per la Patria, infatti, è come tifare per l’Inter o il Milan, una scelta di campo talmente arbitraria che, almeno per chi da una parte e dall’altra ha responsabilità di guida, consente lo sviluppo della consapevolezza della pari assurdità di ciò che da ambedue le parti si sta facendo, nonché di una mia dignità di combattente uguale a quella del mio nemico, come nella epoca dello Jus publicum Europaeum e della guerre en forme. Quando invece si assume l’umanità come principio, come hanno fatto gli americani a cominciare almeno da Wilson nel 1917 (e come ha ribadito anche Obama ad Oslo: “force can be justified on humanitarian grounds”), è inevitabile che il nemico sia da considerarsi “hors-l’humanité”, svalorizzato fino al punto che diviene un valore il suo stesso annientamento, “secondo il ben noto modello della distruzione della vita indegna di essere vissuta” (ibidem, p. 160): “una guerra condotta per il mantenimento o l’allargamento di posizioni economiche di potere deve essere trasformata, con il ricorso alla propaganda, nella ‘crociata’ e nell’ultima guerra dell’umanità” (ibidem, p. 165).
La distanza con Habermas non potrebbe dunque essere maggiore. Chi pretende di agire in vista dell’intesa, infatti, non mira forse a delegittimare come strumentale e disumano ogni agire ‘politico’? Fintanto che non si confessa che le parole sono pietre e che anche l’agire discorsivo orientato all’intesa non è che una sottospecie di agire strumentale; che quest’ultimo non è – weberianamente – meccanicità priva di senso, ma spirito-in-lotta, macchiato dello stesso peccato di origine di tutto ciò che è spirito, – non si esce dall’aporia in cui versa la modernità. “Lo spirito combatte contro lo spirito e la vita contro la vita e l’ordine delle cose umane scaturisce dalla forza di una coscienza integra. Ab integro nascitur ordo” (Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le categorie del ‘politico’, p. 183).
Molto, molto interessante ed affascinante questa discussione sui valori. Sto portando avanti una ricerca dottorale sui valori personali e professionali dei docenti e dei loro conflitti in situazione; non nascondo la difficoltà nel trovare un filone che spieghi l’agire umano e quindi una metodologia di ricerca adeguata; ci sono tante teorie e tutte vere: del tipo che è vero tutto ed il contrario di tutto! Sono curiosa di scoprire i risultati delle mie interviste e raccontare gli esiti.
Imma