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Posts Tagged ‘verbalismo’

aristoteleChe in filosofia ci si accontenti delle parole e di argomentazioni puramente verbali è costume ancor oggi piuttosto diffuso, ma che ha antenati, anche letterari, alquanto illustri. C’è persino stato chi – in tempi recenti e meno recenti – ha fatto di Don Ferrante – il celebre erudito dileggiato da Manzoni nei Promessi sposi – una bandiera, un eroe del ragionamento apodittico: visto che non si conoscevano microbi e batteri, Don Ferrante «aveva ragione di negare sillogisticamente la peste, e merito grande di morirne per non venir meno alle regole del ragionamento» (cfr. S. Gerbi, Raffaele Mattioli e il filosofo domato, Torino, Einaudi, 2007).

Il punto è allora proprio questo, perché si tratta di un serio problema epistemologico che trascende la (gustosa e condivisibile) caricatura/parodia manzoniana del tipico filosofo secentesco, della sua cultura libresca, vuota, senza alcun legame con l’esperienza, verbalista e ossessivamente aristotelizzante fino al punto di negare l’evidenza della peste perché questa non rientra in alcuna categoria.

Ma Don Ferrante (come tutti gli “scienziati” dell’epoca) non conosceva né microbiologia né infettivologia: in un’epoca in cui la mentalità scientifico-sperimentale non si era ancora affermata (siamo nel 1630: Galilei non ha ancora pubblicato il Dialogo dei massimi sistemi) era quindi legittimo aspettarsi che un “dotto” argomentasse a partire da puri concetti (e se i concetti non si accordano con l’esperienza, tanto peggio per l’esperienza). Locke, Hume e Kant sono ancora lontani.

A mio avviso, tuttavia, questo non è un argomento per giustificare le tesi di Don Ferrante e rifarsi a lui come a un eroe del ragionamento, come vorrebbe una certa vulgata relativistica oggi in voga, soprattutto perché Don Ferrante non è affatto un eroe del ragionamento, visto che i suoi argomenti sono pieni di fallacie logiche.

 Per capire le “ragioni” di Don Ferrante è pertanto utile riportare il testo.

 «Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.

 – In rerum natura, – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci…?».

 Si noti l’attacco del ragionamento di Don Ferrante: per dimostrare che il contagio non è reale egli esordisce dicendo che «non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera».

In base alla retorica classica questo è un argomento quasi-logico, del tipo per divisione: un argomento che prova l’esistenza o l’inesistenza di qualcosa (in questo caso l’inesistenza del contagio) distinguendo gli aspetti del thema probandum e quindi escludendoli dalla natura stessa del problema.

Dal punto di vista della teoria dell’argomentazione di Perelman siamo alla fallacia argomentativa del falso dilemma, perché si è già assunto come valido che la realtà sia interpretabile solo con un’onto-logica a due categorie basata su distinzioni successive, secondo il modello della diairesis platonica: esistono solo o sostanze o accidenti; le sostanze sono o spirituali o materiali; le sostanze materiali possono essere solo o semplici o composte; gli accidenti possono essere solo o qualcosa di “trasportato” o qualcosa di “prodotto”. E il dilemma è falso perché porta a un’esclusione, laddove è chiaro che la conoscenza limitata che l’uomo ha della sfera fenomenica dovrebbe invitare alla prudenza e a non escludere a priori che il contagio potrebbe essere sostanza.

Poiché la deduzione («la concatenazione») è formalmente corretta, allora i ragionamenti devono anche esser veri. Qui siamo di fronte a una tipica fallacia argomentativa, quella per cui la validità (formale) è chiamata a fondare la verità (di fatto).

Se qualcosa è valido logicamente, cioè formalmente corretto, allora deve anche esistere nella realtà, postulando in tal modo un insostenibile isomorfismo tra piano logico-argomentativo e piano empirico-reale. (Un isomorfismo – si badi – insostenibile tout court e non semplicemente insostenibile per noi oggi).

 Riprendiamo il testo manzoniano:

 «- Tutte corbellerie, – scappò fuori una volta un tale.

 – No, no, – riprese don Ferrante: – non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.

 Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.

 – La c’è pur troppo la vera cagione, – diceva; – e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?

 His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXVII

 Nonostante la presenza di fallacie e filosofemi, Don Ferrante tenta, da buon razionalista, di individuare una causa della pestilenza: egli nega infatti il contagio, ma non l’esistenza del morbo (l’evidenza della morte non può essere negata nemmeno con filosofemi). Solo che attribuisce diversamente la causa: non si tratta di epidemia, cioè di un male che si diffonde attraverso il contatto fisico (visto che non è né sostanza né accidente), ma del frutto di congiunzioni e influssi astrali («l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione»). «La vera cagione», infatti, sta per Don Ferrante nella «fatale congiunzione di Saturno con Giove»: e qui persino coloro che fino a quel punto gli avevano dato retta cominciano a infastidirsi, probabilmente perché vogliono continuare a pensare che il male che hanno di fronte non sia quel male. Nonostante tutto Don Ferrante, con il suo deduttivismo ossessivo frutto di una cosmologia improbabile, pensa a un’essenza, a una causa, a un’origine che possa render conto dei “fenomeni”. In questo c’è, tutto sommato, un sentore di scientificità, un tentativo di spiegazione causale.

Tuttavia anche qui c’è un errore logico, quello della confusione tra causa (la congiunzione di Saturno con Giove) e l’effetto (la pestilenza): un evento non ne causa un altro semplicemente perché i due eventi accadono insieme. (Possiamo intendere anche il rapporto tra causa ed effetto come fallacia post hoc e il discorso non cambia).

Benché sia evidente l’ironia “illuministica” di Manzoni che impone al suo personaggio una soluzione alquanto inverosimile e che fa tabula rasa intorno a lui (privandolo anche di un minimo di contraddittorio per mettere in risalto la solitudine dell’erudito che se ne resta solo con le sue “ragioni” come un eroe di Metastasio che muore maledicendo le stelle), nondimeno anche sul piano del ragionamento le “ragioni” di Don Ferrante non sono vere ragioni: sono fallacie. Del resto lo stesso Aristotele, il Filosofo prediletto di Don Ferrante, nelle Confutazioni sofistiche afferma che gli argomenti sofistici sono argomenti che sembrano dialettici (cioè confutativi), ma che in realtà ne hanno solo l’apparenza (Soph. El., 165 b, 8-9).

Cade quindi, a mio avviso, l’argomento convenzionalistico-relativistico, tipico di certa epistemologia contemporanea, per cui, date le conoscenze scientifiche diffuse all’epoca, il ragionamento di Don Ferrante deve essere considerato valido (come ad es. quando Duhem sostiene che nella controversia sulla teoria copernicana tra Galilei e la Chiesa era quest’ultima ad avere ragione e Galilei torto).

Semplicemente, le “ragioni” di Don Ferrante non sono ragioni fino in fondo, ma ne hanno solo l’apparenza. Essere aristotelici fino in fondo è un impegno gravoso.

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