Le pitture rupestri delle grotte di Altamira sono segni tra i più antichi, enigmatici, potenti, che altri uomini – uomini arcaici, lontani, misteriosi, ma non a noi estranei – ci abbiano mai lasciato.
I segni in cui le pitture consistono non sono scrittura (o almeno noi non siamo in grado di interpretarli, come facciamo con altri segni, come scrittura), ma sono certamente segni incisi e lasciati con intenzione. Sono modi di lasciare segno. Modi di lasciare un segno.
Se i segni di Altamira non sono scrittura, altri modi troveranno peraltro poi nella scrittura il loro senso, altri tipi di segni si riveleranno – con l’invenzione alfine degli alfabeti – forme sempre più funzionali per esprimere significati. Ma già le pitture rupestri forse della scrittura sono in qualche modo l’archetipo, se è fondata la tesi che rimanda alla forma delle corna del toro l’origine del segno della prima lettera dell’alfabeto. Nella A (capovolta) che è alfa del mondo-letteratura sarebbe cioè l’incisione di una figura che originariamente non era alfabetica, ma rimandava probabilmente all’incontro inquietante con l’animale, incontro che giá le pitture di Altamira forse ritualizzano o esorcizzano.
L’alfabeto articolerebbe così forse anch’esso, a suo modo e a sua volta, la stessa esigenza delle pitture rupestri. Se in qualche modo anche in esso echeggia, nella scelta del segno dell’alfa, l’immagine che rimanda al rapporto con l’animale, anche la scrittura alfabetica è un lasciare un segno che indica e fissa in significato un’inquietudine.
Tutti i segni significanti, a partire dai segni ancestrali dipinti o dai primi segni alfabetici, non sono cioè asettici, ma vibrano dell’emozione che li ha motivati. Incidendo in me come incide, a distanza di secoli, il segno lasciato da colui che dipinse il toro di Altamira, anche ogni segno della scrittura mi segna dando significato. Così come incide in te e in chiunque, incontrandolo e interpretandolo, in qualche modo lo decifri.
***
Nelle grotte di Altamira il disegno del toro, così come le immagini dei bisonti e degli altri animali, e delle mani misteriosamente proliferanti calcate sulla roccia, sono quindi probabilmente segni lasciati a esprimere e rimemorare un’originaria inquietudine.
Il ricordo di una caccia o l’evocazione di una buona caccia futura (questi sembrano i motivi che sottendono l’esecuzione di chi ha sentito la necessità di incidere tali segni nella roccia) sono connessi all’esigenza di fronteggiare un’incertezza, di colmare un’assenza o un vacillare del senso. Nel disegno si dispone così una trama d’ordine in cui si dipana, all’interno di una grotta e quindi in un luogo protetto, una scena dell’enigmatico e inquietante spettacolo del mondo.
Giá nel gesto compiuto dall’ “uomo di Altamira” è tutto il senso di un’intenzione profonda che guida ogni gesto in cui la scrittura consiste, nel suo disporsi quindi in tal modo come esorcismo e come terapia, antichissima quindi, a modi del male di vivere.
***
Nel tracciare un segno e nel lasciarlo inciso, allora come ora riluce cioè anche l’esigenza di rinvenire in tal modo bozzoli di senso, accenni a strategie di cura di ansie o paure tramite azioni che si consolidano come procedure e riti.
Emerge così la terapia salvifica del predisporre àncore per un senso umano nel mondo. Ma soprattutto emerge pure la strategia consistente nel delineare in qualche modo, attraverso il segno lasciato e soprattutto – dal momento in cui si sviluppa – attraverso la scrittura, di una narrazione di vita, ossia della posizione in certo ordine e concatenazione di segni e frammenti espressi da un sè e riferiti alla vita propria. Emerge l’importanza terapeutica del fissare ed esprimere una propria bio-grafia.
Forse quale esito conseguente una qualche forma di compulsività – come ogni compulsività espressione di un tentativo di controllare un’angoscia – si insiste, nel lasciare un segno, in scrittura, in un gesto iterato, lievemente variato e modulato. Questo gesto in-scrive una forma-scrittura evocante strutturazione d’ordine nel dipanarsi di parole che, almeno sotto traccia, delineano discorso narrante l’esperienza di un sè che così istituisce la sua storia specifica, nella forma di un qualche equilibrio che dà forma e assicurazione di una, almeno relativa, salvezza di sè. Sta di fatto che questa compulsività organizzata, ordinata, strutturata porta potenzialità di salute. Anche per il suo richiedere una disciplina e un’autodisciplina: disciplina nel doversi costringere entro la prassi precisa che rende eseguibile il segno che ha significato; autodisciplina nel dover realizzare quel governo di sè attento al fare comprendere all’altro ciò che si vuole indicare, il quale richiede e dilazione del desiderio e concentrazione su sè e dislocazione nel punto di vista di altri: elementi costitutivi per ogni possibilità di benessere.
La scrittura realizza così la sua terapia. Radunando intorno alla Cosa l’essenziale, che rende la Cosa quel crocevia di sensi che la pone nella vicinanza in cui consistono senso e salute. Senso e salute come ritrovarsi a casa nel mondo, nell’unico modo possibile che è l’avvicinamento della lontananza in cui il mondo (anche) consiste.
***
Nel progressivo venirci incontro degli spettacoli che via via sopraggiungono al nostro sguardo e al nostro esperire, non è infrequente che ci si ritrovi approdati ad un sostanziale disagio, più o meno profondo e più o meno sottile che sia. A questo disagio possono essere attribuiti i più differenti nomi. Può avere i più diversi modi e gradi. Ma sempre ha (anche) il senso della presa sgradita in una chiusura.
La situazione ci serra in una figura in cui non ci riconosciamo in modo acquietato. Si ha il senso che il proprio riconoscimento non è giunto a compimento. E anche quando il disagio non è magari inquietudine, ma ha il senso dello scacco o della disillusione, anche in questi casi il disagio è tale perchè qualcosa manca (e appunto mancando rende quindi assenti, e magari neppure più nemmeno sperabili o concepibili, soddisfazione e compimento).
In questi frangenti, la scrittura può aprire la distanza che consente di forzare la chiusura. La scrittura per lo meno dispone uno specchio, lo specifico specchio in cui essa consiste, e dà così abbrivio e poi consistenza a una grafia della vita, nuova linfa e sangue alla mia bio-grafia.
Anche solo in ciò la scrittura è terapia. Riconfigurazione di senso a partire da relativa distanza rende possibile rimescolare le carte, selezionare elementi, ridefinire gerarchie e sequenze. Rende possibile aprire nuovo senso, ma senza arbitrio e troppa possibilità di forzatura. In un gioco di chiusura e apertura (nel respiro essenziale di apertura e chiusura) rompe la rigidità, ma costringe al rigore. Sviluppando così un discorso, una biografia e un’esistenza, che sappiano stare in calibro e in bilico.
Ogni nuova scrittura riassesta un livello d’esistenza, apre un mondo. Mondo altro rispetto a prima e altrove. In cui solo, a partire dal disagio, sono possibili salute e salvezza.
***
La scrittura lascia dunque segno. Perciò nel praticarla lascio un segno e in essa il senso distillato nel segno si salva. In tal modo l’equilibrio e il compimento in cui essa consiste mi esprime, permane e apre strada. Anche in questo segno è terapia. La mia terapia.
Se il segno diventa poi seme, forse perciò sarà anche per te qualcosa di bene. Nel segno sempre si deposita qualcosa che in qualche modo è nel segno ricordo. Un ricordo (di evento o concetto che sia) viene nella scrittura così lasciato andare e, in tal modo abbandonato, arriva a toccare la mente ed il corpo.
Un mio compimento che ha preso figura si espone. Penetra in te che mi leggi, si insedia in te. Come un tarlo, o una promessa. Sta poi nascosto, forse prolifera.
Tu che mi leggi perciò sei me, anche pur solo un lato che io non conosco di me. Mi sono così comunque intromesso dentro di te e ti tocco nel modo forse più intimo e profondo che c’è. Ma insieme, pure, io divento te, nell’emergere in te di cose di me che forse mai capirò (quelle che tu capisci leggendo me).
La scrittura quindi perciò è segnante inanzitutto il lettore e il lettore è in fondo il segno lasciato dalla scrittura. Segno di una indecifrata scrittura: il lettore.
Così lascio un segno: a te che leggi le mie parole, che leggi i miei scritti (… in altro ambito: che ascolti le mie “lezioni”…). Spero che il segno resti, che sia decifrato.
Ma, come in ogni scrittura, il mio volto è nascosto. Io questo volto lo vedo, nella scrittura, riflesso. Lo riconosco. Tanto mi basta e mi dà equilibrio.
Ma, come ogni scrittura, sto pure in attesa. Di un qualcosa. Una restituzione di senso forse, improbabile e incerta.
O una lettura.
Se la scrittura è quella pratica “che sviluppa gesto che lascia segno”, questo “gesto” non può non produrre il Reale, (la “Cosa” stessa). Attraverso la scrittura produciamo “effetti di verità”, “lasciamo un segno”, elaboriamo quella particolare “strategia salvifica di predisporre àncore per un senso umano nel mondo”. Kafka condividerebbe: scrivere è il gioco insensato che produce senso o, almeno, effetti di senso. In nessun modo, quindi, lo scrivere descrive semplicemente il reale, lo rappresenta asetticamente raffigurandolo con un graffito o un’iscrizione: il pittore, lo scriba, il sacerdote incidono fisicamente il segno nella roccia, nella pergamena, nella cera per segnarla in modo definitivo, con gesto perentorio. Oppure sì, la scrittura de-scrive, se usiamo il suffisso in posizione rafforzativa, non riproduce meramente la res ma la produce, proprio perché innesca quella “compulsività” che si è andata organizzando, ordinando e strutturando storicamente con “potenzialità di salute”. Forse si dovrebbe anche ammettere, seguendo Foucault, che la scrittura si produce all’interno di un ordine del discorso: lasciare una traccia è sempre una selezione indotta da meccanismi di potere, da “dispositivi” e “linguaggi” (compreso quello alfa-generativo delle grotte di Altamira) che rispondono a precisi codici dettati dal potere, dai poteri, dalla determinata istituzione che si è impadronita della produzione del senso.
Frasi e parole “non hanno contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano qualcosa”, perché “noi siamo parte del dato” (così il linguista A. Moro nel suo recente “Parlo, dunque sono”). Come voleva Iser, non c’è produzione di testi senza il “lettore implicito”. Ma proprio per questo oggi la nostra scrittura, il nostro ordine del discorso, il nostro lasciare un/il segno è – per dirla con Blanchot – “scrittura del disastro”, della disgregazione, frammentazione, virtualizzazione, reificazione del reale che è divenuta la vera sostanza “etica” (sia detto ironicamente) del nostro tempo: il tempo della compiuta consapevolezza che “lasciar tracce” appartiene a dispositivi di potere, compreso quello di questo blog. Se non ci fosse quella determinata istituzione detentrice del potere mediatico che si chiama WordPress.com – grazie alla quale diamo vita concreta al nostro bisogno di lasciare una traccia, ma a cui siamo totalmente estranei in quanto disseminatori di tracce e che non sappiamo se e come considera quanto in essa viene scritto – noi non saremmo nemmeno qui a tentare di lasciare una qualche traccia parlando di “lasciare (un) segno”. Questo perché nel mondo ipermediale e ultraconnesso la scrittura non produce più “effetti di verità” o di “senso” in modo innocente, né si riesce a lasciar traccia o a fendere le chiusure del Reale, che si autobanalizza ormai in una proliferazione indefinita, in un susseguirsi seriale, in un’evocazione, incontrollata e incontrollabile, talvolta mistificante, di segni. Segni che rincorrono altri segni, parole che rispondono ad altre parole, cinguettii, cicalecci, assonanze e dissonanze temporanee e contingenti: si twitta, si condivide, si socializza, si replica, si re-blogga, si clicca “I like it” in un diluvio universale di segni che lasciano traccia solo quando provocano altri segni. Il segno è divenuto il puro segno di sé. Abitiamo i lati d’ombra del discorso disseminato, i suoi vuoti, le sue ambivalenze, oscillazioni, ambiguità. Perché il segno siamo noi stessi: “Ein Zeichen sind wir, deutungslos” (F. Hölderlin, Mnemosyne).