- Ospiti
La malattia è ospite non invitato che giunge sì, ma – che sia male del corpo o dell’anima – giunge in realtà là dove già abita.
La distruzione nel corpo che la malattia porta con sé è infatti in realtà nulla più che trasformazione. E la trasformazione è sempre già in opera. L’integrità stessa del corpo c’è solo nella trasformazione in cui consiste la rigenerazione costante, in cui il neogenerato sostituisce quanto è distrutto (per essere poi a sua volta distrutto da altro che quindi si genera). Ogni agente patogeno che si insinua nel corpo trova in ciò innesco.
Nella malattia del corpo semplicemente la distruzione dilaga. Analogamente la causa del vacillare disarmonico o della frattura di sé in cui la sofferenza mentale consiste si insinua facendo leva sulla costante inquietudine che spinge la mente – nelle sue fluttuazioni – sempre oltre, verso nuovi equilibri ma anche sempre possibili nuovi squilibri.
Quando si insediano quindi, quasi sempre silenti e senza preavviso, la malattia che si alloca all’interno del corpo o il male di vivere non sono perciò altro che forma (somatica o psicosomatica) che, alla maturazione del tempo debito all’occasione opportuna null’altro in fondo fanno che sbocciare come sbocciano e sfioriscono i fiori ai loro tempi assegnati.
In tal modo il tempo della salute e della malattia (come in qualche modo della gioia e il dolore, della vita e la morte) vengono…appaiono… vanno…
- Il rifiutato
Quando il male giunge, esso cioè in realtà emerge da un fondo in cui si annidava.
In questa emersione sensibilizza – in un modo cui erano già predisposte – zone somatiche o realtà psichiche o esistenziali, prima poco o nulla avvertite.
In queste zone disloca e in queste realtà pone in spicco – in forme diverse e gradienti di intensità differente – per lo più il dolore.
Questo dolore – perché questo è il dolore: il rifiutato – io lo rifiuto.
Ma in esso peraltro consisto.
Rifiutarlo, nel rifiutare il rifiuto, in realtà è rifiuto ulteriore: dolore aggiuntivo.
- Non qui. Altrove
In questo dolore l’attenzione si appunta, in propriocezioni sgradite, su specifici luoghi del corpo o stati sopiti dell’anima prima sostanzialmente inavvertiti.
L’attenzione sul corpo ce lo rivela scomodo. L’anima si svela nello strappo dell’inquietudine in cui consiste. In riverberi tra anima e corpo.
Innervazioni, viscere, flussi, punti di giuntura, tensioni muscolari, pulsazioni, percezioni, emozioni: sono luoghi e eventi del corpo che sono dei dentro. Nel corpo insidiato e aggredito e nel male di vivere quanto nascosto nel dentro (qui per lo più fluente attutito e silente) è avvertito dall’anima-mente. In quanto avvertito, diventa come se fosse dinanzi. Ineludibile reclama attenzione.
L’intimità nascosta inavvertita nel corpo (tanto che la salute può essere intesa come il non avvedersi del proprio corpo placati a sé stessi) viene destata da qualcosa che rode e corrode. La trasparenza silente dell’anima aperta sul mondo intravede o vive equilibri vacillare o crollare.
Nella malattia (del corpo o dell’anima) perciò mi accorgo che sono violato, lacerato, intaccato, devastato, alienato, in pericoloso disequilibrio. Esposto.
In questa esteriorizzazione il corpo emerge dal suo silenzio, l’anima si svela nuda nella sua finitezza e fragilità.
Nel dolore che si impone in tal modo dinanzi e in cui io ineludibilmente consisto (in quanto anche nel cercare di allontanarlo non faccio che ribadire il dolore poiché, appunto, nel volere allontanare il dolore consiste) il proprio corpo e l’anima, che del corpo è la voce e la vece, sono esperiti, oltre che in modo dolente, in modo espropriante.
Si vorrebbe perciò – nell’essere portati altrove – essere altrove da questo altrove: stare altrimenti.
- Ostilità del mondo
La mia identità prende così spicco inconsueto e sgradito in un mondo che mi si svela ostile.
Ma da questo mondo non posso staccarmi (se non con la morte) perché è quanto mi è di più prossimo.
Il mondo è qui dove sono. Non c’è altrove. Ma qui io soffro.
Qui il mondo svela la sua indifferenza alle percezioni che emergenti mi invadono, svela la sua estraneità. Anche il linguaggio non è più la mia parola. Ma l‘ascolto delle sensazioni, cui la malattia induce, mi introduce a un linguaggio (quello della medicina, della psicopatologia) in cui le sensazioni e i vissuti diventano sintomi.
Inscrivendo in me la sua scrittura e imponendomi questi codici la malattia svela alla mente – oltre e più che la nostra fragilità e le nostre capacità e possibilità di soffrire – la nostra costitutiva passività.
- Questo ci tocca
Una volta allocato, l’ospite (la malattia, il male di vivere) attrae così l’attenzione su sé nella persistenza dei segni che invia.
Nella malattia del corpo ponendomi all’erta inchiodato in essa e in circospezione su sue ulteriori presenze. Nel male di vivere immergendomi nella sua densità.
Tutto questo ha a che fare col senso.
Non solo per l’urgenza e la difficoltà di trovare in questa intrusione che emerge nel suo essere me, nel suo essere già da sempre me, un senso. Ma anche per il concentrarsi dei sensi tutti nella nuova presenza, che richiama a sé innanzitutto là dove si duole.
Nella malattia – che sia lesione del corpo o male dell’anima – questo “ci tocca”.
In questo tocco verranno altri tocchi, con-tatti, altre altre trasformazioni.
Non potranno che essere senso.
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